SOCIETÀ

Cina: il bazar delle religioni

È possibile guardare alle religioni come ad aziende in concorrenza fra loro, determinate a contendersi fasce di mercato rappresentate da nuove masse di fedeli da associare? Per alcuni sociologi certamente sì. È di questo parere ad esempio Fenggang Yang, uno dei maggiori specialisti nello studio di quel particolare settore merceologico costituito, all’interno dell’immenso sistema economico cinese, dalle confessioni religiose e dal complicato rapporto che intrattengono con uno Stato e una società che, dalla rivoluzione in poi, hanno conosciuto cambiamenti radicali. Yang, che insegna all’americana Purdue University, durante un seminario a Padova ha proposto una lettura dell’evoluzione del sentire religioso in Cina come frutto delle progressive aperture del regime, ma anche come confronto tra differenti strategie che si attuano con metodi non troppo lontani dal marketing aziendale. Un processo che in poco più di sessant’anni dalla proclamazione della Repubblica Popolare ha portato una comunità segnata dall’ateismo di Stato a una crescita dell’appartenenza religiosa apparentemente senza freni. I dati citati da Yang parlano di un Paese nel quale i “consumatori” del mercato religioso si stanno espandendo in modo impressionante, esattamente come accade nei comparti economici; e ciò che colpisce è che la religione che sta conoscendo l’incremento più impetuoso del numero di “clienti” è quella cristiana: non tanto il cattolicesimo, che in Cina ha una storia recente molto travagliata, quanto la costellazione delle chiese protestanti. Secondo il Pew Research Center, importante istituto di ricerca americano, i cristiani in Cina oggi sono 67 milioni: di questi l’86,5 per cento, cioè 59 milioni, è di protestanti; gli altri otto milioni sono cattolici. In totale, quindi, il cinque per cento della nazione più popolosa del mondo oggi sarebbe cristianizzato.  Ma il dato che fa più riflettere, al di là delle cifre assolute, è la crescita nel tempo di questa componente della società cinese. Secondo Yang, al momento della fondazione della Repubblica Popolare (1949) i cristiani erano circa quattro milioni, tre di cattolici e uno di protestanti; al termine della rivoluzione culturale di Mao (1976, anno della sua morte) il numero di cattolici non muta, mentre i protestanti crescono a tre milioni; a metà anni Novanta, quando le riforme economiche hanno avviato da tempo l’afflusso di investitori cinesi provenienti dall’estero e contribuiscono a una società più dinamica e cosmopolita, i cattolici salgono a quattro milioni, mentre i protestanti esplodono a 10 milioni. Guardando alle statistiche attuali, dunque, nell’ultimo ventennio il numero di cattolici sarebbe raddoppiato da quattro a otto milioni; i protestanti invece si sarebbero sestuplicati, da 10 a 59 milioni. Sulla base di queste tendenze, Yang cita analisi di fonti diverse, tutte concordi nel formulare una previsione: la Cina, entro il 2030, potrebbe diventare lo Stato con il maggior numero di cristiani al mondo, superando gli Stati Uniti. Si realizzerebbe così uno straordinario paradosso, per cui il maggior Paese in cui l’ateismo è un valore ufficialmente promosso e sostenuto diverrebbe il principale centro mondiale di una religione vista per decenni come nemica. Va ricordato che in Cina, dopo la rivoluzione, la Chiesa cattolica romana fu bandita e “sostituita” con un cattolicesimo ufficiale, di Stato: una confessione autoproclamatasi cattolica ma mai riconosciuta dal Vaticano, i cui vescovi sono nominati con l’avallo del governo ma incorrono nella condanna della Santa Sede, anche se non mancano rapporti informali e tentativi di mediazione. Mentre dunque il cattolicesimo cinese è in bilico tra scomunica e aneliti (ufficiosi) alla riunificazione con il papa, i tanti rivoli del protestantesimo stanno forse preparando un maremoto. È la confutazione nei fatti, per Yang, delle teorie che fino a qualche decennio fa associavano avvento della modernità e secolarizzazione, secondo le quali la costruzione di società dotate di maggiore pluralismo avrebbe relegato le religioni a un ruolo sempre più marginale. Al contrario, per Yang è proprio il pluralismo a favorire la vitalità delle confessioni: secondo processi analoghi a quelli del mercato, la maggiore libertà d’iniziativa e di diffusione delle religioni incoraggia la competizione, creando così dei sistemi basati su un rapporto domanda/offerta i cui caratteri dipendono, come per gli scambi di beni, da quanto il singolo “mercato delle fedi” sia libero, regolato o del tutto proibito. In Cina oggi lo Stato ammette cinque religioni (taoista, buddhista, cristiana, musulmana, protestante e la cattolica “ufficiale”, le ultime due considerate confessioni distinte): queste costituiscono il mercato legale, che può venire alla luce, sia pure con molte restrizioni, e conquistare nuovi fedeli. Esiste poi un mercato grigio, nel quale sono comprese le “house churches”, le numerosissime forme di religiosità che vengono praticate in forma semiclandestina in luoghi privati, ufficialmente non consentite ma tollerate; infine c’è un mercato nero, quello dei culti vietati e perseguiti (un esempio è il movimento Falun Gong). Secondo Yang, l’estremo dinamismo di questa pluralità di “mercati” sarebbe alla base di un’espansione continua del numero di credenti; e i culti più favoriti sarebbero quelli, come i protestanti, con caratteri e capacità organizzativa tali da meglio adattarsi alla nuova società cinese e ai suoi bisogni spirituali. Se le previsioni degli studiosi come Yang si riveleranno giuste, dobbiamo prepararci a conoscere una Cina sempre più lontana da quella immaginata da Mao: ed è inevitabile chiedersi se e quando al pluralismo economico e religioso si affiancherà quello politico. 

Martino Periti

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