CULTURA

Colta, e ben coltivata. L'Italia dei nuovi contadini

Un ritorno dell’Italia all’agricoltura? Ne è convinto il giornalista Giorgio Boatti autore di Un paese ben coltivato. Viaggio nell’Italia che torna alla terra e, forse a se stessa. Mosso da una curiosità personale, Boatti ha compiuto un viaggio attraverso l’Italia dei campi, quasi ignorata dai mass media, scoprendo una realtà spesso diversa da quanto tendiamo a pensare. Quello di Boatti non è uno studio o un saggio, ma uno scritto che somiglia molto a un romanzo, o al diario di un viaggiatore. Tra citazioni letterarie e dialoghi con imprenditori agricoli riscopre campi e coltivazioni, serre e cooperative, ritrovando quella dignità profonda della vita campestre, dimenticata dalla società contemporanea, che porta l’uomo a contatto con le sue più profonde radici. 

Boatti viaggia attraverso località fra le più piccole e dimenticate d’Italia, tutte realtà che - nonostante siano colpite dalla difficile congiuntura economica che l’Italia sta vivendo - mostrano una vitalità sorprendente, capace di racchiudere i segni di una possibile rinascita. In Calabria, visita un’azienda agricola che si occupa di agrumi e di floricoltura e incontra Ugo Sergi, imprenditore che coltiva il bergamotto, la pianta che fornisce essenze ineguagliabili per profumi e all'inizio dell'ottocento esportavamo ovunque, per poi dimenticarla. Sergi la vende in tutto il mondo, tramite un'agente londinese; per ora i guadagni rimangono però limitati e di nicchia, poiché il mercato è dominato da fragranze composte con prodotti chimici, che sono di gran lunga più economiche. Il bergamotto ne produce di qualità elevatissima, ma è molto costoso ed è sconfitto sul mercato da prodotti di gran lunga peggiori: Boatti parte da qui per denunciare  gli aspetti peggiori della società industriale, che spesso tramite i più sofisticati strumenti del marketing vende prodotti di scarsa qualità a prezzi elevati.

La conoscenza, la cura, la tradizione, le radici alla base della qualità, per chi produce come per chi acquista, contrapposte all'appiattimento della qualità e del gusto nella produzione industrializzata: è questo uno dei temi portanti del libro. L'autore ricorda con affetto gli scritti di Gino Girolomoni contro il peggio della società dei consumi. Poeta, imprenditore, uomo di fede e "profeta" della riscoperta di un'agricoltura contadina, profondamente radicata nella storia e nello spirito comunitario, questo intellettuale scomparso da qualche anno ha legato il suo nome alla cooperativa agricola "Alce Nero", fra i precursori del biologico in Italia. L’autore fa visita alla sua famiglia, che ne ha portato avanti il lavoro innovandolo e mantenendone forte l'ispirazione iniziale. La cooperativa, oggi intitolata a lui (il marchio originario è stato rilevato molti anni fa dalla grande distribuzione), nonostante la crisi riesce ancora a produrre facendo della qualità il proprio marchio di fabbrica ed esportando fino negli Stati Uniti. 

Girolomoni, ricorda l'autore, era uno strenuo oppositore di quella che chiamava la ‘malavita laureata’: gli scienziati, diceva, che hanno impiegato raggi x e gamma e ogni ritrovato chimico per aumentare la produttività delle coltivazioni. Come il suo amico Paolo Volponi - che aveva elogiato pochi imprenditori come Olivetti, ma criticato tanti aspetti della società industriale - Girolomoni si opponeva alla perdita dei valori e di senso nella società del consumismo. Criticava lo svuotamento delle campagne e si batteva per la valorizzazione del lavoro nei campi, per dare nuovo vigore all’economia del nostro Paese.

In Liguria, l'autore fa tappa negli uliveti della famiglia Sommariva. Con la "taggiasca" la famiglia produce un olio che ha un sapore unico, che solo gli intenditori possono apprezzare appieno: anche il gusto va coltivato. L’azienda assume ragazzi dell’istituto agrario, che talvolta si arrampicano sui rami più alti per cogliere le olive migliori. Salire sugli alberi, guardare con occhi nuovi ciò che abbiamo vicino: sono molte le cose che stiamo perdendo. Boatti sottolinea che gli italiani non sanno più valorizzare le risorse del paesaggio agricolo poiché non guardano - proprio come nel ‘barone rampante’ del romanzo di Calvino - la realtà con spirito critico. Gli ultimi governi non hanno creduto nell'agricoltura, non hanno investito nella ricerca, nella sperimentazione, nella riscoperta della tradizione e nelle coltivazioni di eccellenza per rendere più competitivi i nostri prodotti su scala mondiale, impoverendo di fatto un settore che è stato sempre di fondamentale importanza nel nostro Paese. 

Cultura, coltura: nel libro di Boatti gli aggettivi ‘colto’ e ‘coltivato’ sono inscindibili. Sono molti gli imprenditori agricoli laureati e colti che si occupano dei propri campi spinti più dalla passione che dalla sete di profitto immediato. Per l’autore il paesaggio dei campi ha un volto più umano perché è un lavoro collettivo, porta le persone a riunirsi in famiglie e cooperative, mettendo un argine allo sfrenato individualismo che caratterizza la civiltà urbana. Giorgio Boatti non valuta di per sé negativamente l’ingresso del mondo industriale nell’agricoltura, ma ne critica gli aspetti più disonesti, come il Volponi delle Mosche del capitale. Si sofferma ad analizzare gli aspetti più bizzarri del marketing per i prodotti alimentari e osserva in maniera ironica le scritte presenti sui pacchi di biscotti, composizioni come ”Diede un ultimo sguardo / al mare di latte / sottostante / e si tuffò…”.  I versi impiegati per le campagne pubblicitarie non sono poetici, bensì nenie infantili: anche la parola, nella civiltà industriale, è diventata banale e poco comunicativa. Il marketing spesso ignora la coscienza critica degli individui e li fa regredire a bambini.

Il viaggio di Giorgio Boatti ha forse il suo culmine nel "giardino dei poeti", una riserva naturale creata da un imprenditore agricolo ligure. Ogni pianta, con un suo cartellino, ci dice il suo nome e poi ci parla con le parole dell’autore che l’ha fatta spuntare su qualche pagina di un suo libro. L’autore si sofferma sulle tamerici di D’Annunzio, sui rododendri di Goethe e sulle betulle di Pasternak. Il culto dalla parola scritta e orale riaffiora dovunque nel suo scritto. Ma, nonostante le molte citazioni, Un paese ben coltivato non appare per nulla accademico: scorre con la levità e la naturalezza dei fiumi e dei campi di cui parla. Perché, come scrive Giorgio Boatti, "l’intuizione è che coltivare i campi e coltivare se stessi e aver cura del mondo costituiscono un’unica cosa e questa comincia dalle parole. Col dare il nome giusto alle cose”.

Marco Di Caprio

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