UNIVERSITÀ E SCUOLA

Come cambiano gli studenti e le università in America

Prima vennero quelli pazzi e irresponsabili di Animal House, il film del 1978 che lanciò la carriera di John Belushi. Poi, decenni dopo, fu la volta di quelli un po’ secchioni e un po’ geni di The Social Network, la pellicola che nel 2010 ha raccontato come un giovanissimo e altrettanto ambizioso Mark Zuckeberg abbia creato il fenomeno Facebook dal suo dormitorio a Harvard. In realtà, gli studenti universitari americani non sono più quelli di un tempo, e nemmeno quelli di cinematografica memoria recente. Nel bene o nel male, il profilo demografico del corpo studentesco del Paese sta cambiando rapidamente e, oggi, i ventenni iscritti a tempo pieno a corsi di laurea quadriennali (negli Stati Uniti non è ancora arrivato il 3+2) presso università pubbliche o private ma comunque non profit sono solo una minoranza dei circa 18 milioni di americani all’inseguimento di una laurea nell’anno accademico 2011-2012.

Analizzando dati del dipartimento dell’Educazione, il Wall Street Journal è arrivato alla conclusione che i cosiddetti studenti “tradizionali”, quelli che corrispondono alla descrizione di cui sopra, erano l’anno scorso circa 5,2 milioni, nemmeno il 30% del totale. Chi frequenta il college in America lo fa sempre più a tempo parziale, lavorando durante il giorno e andando a lezione di sera in modo da poter guadagnarsi da vivere e evitare di indebitarsi eccessivamente. Tanti cominciano da adulti, magari per prendersi quella laurea sfuggitagli da più giovani. E tanti altri perseguono diplomi professionali, più tecnici e specializzati, che richiedono solo due anni di corso.

“Si tratta di una tendenza che osserviamo già da anni, ma cui la recessione ha dato nuova spinta con sempre più gente senza lavoro che ha deciso di tornare a studiare”, dice Andrew Gillen, direttore per la ricerca presso Education Sector, un think tank di Washington. “Da un certo punto di vista, questo fenomeno prova che un titolo di studio universitario è visto come sempre più fondamentale per raggiungere, o anche solo mantenere, uno stile di vita da classe media”.

La metamorfosi demografica della popolazione universitaria negli Stati Uniti sta avendo forti ripercussioni sul sistema di istituzioni pubbliche e private impegnate sul fronte dell’istruzione. In particolare, le diverse esigenze di questi nuovi studenti non-tradizionali, che pretendono massima flessibilità in termini di orari, curricula e costi, è all’origine del successo dei college a scopo di lucro, il cui numero è aumentato esponenzialmente nell’ultimo decennio. Sempre secondo il Wall Street Journal, se nel 2001 meno del 4% di iscritti a corsi di laurea quadriennali frequentavano questo tipo di università, nel 2011 costoro rappresentavano già l’11% del totale. “I college for profit sono stati i primi a dare spazio agli studenti non-tradizionali, a lungo ignorati dalle università non profit, ad esempio offrendo classi serali e altri servizi su misura”, spiega Gillen. “Tra le altre cose, sono molto avanti nell’uso delle nuove tecnologie e nell’organizzazione di corsi on line”.

Secondo Doug Shapiro, direttore per la ricerca dell’organizzazione non-profit National Student Clearinghouse, la maggior diversità della popolazione universitaria americana e la conseguente espansione delle opzioni a disposizione degli studenti li sta trasformando “sempre più in consumatori, che non hanno problemi a cambiare college se non sono soddisfatti della prima scelta fatta”. Shapiro giudica positivamente questo sviluppo, perché un sistema più flessibile garantisce a più persone la possibilità di perseguire un titolo di studio universitario. In un certo senso, i numeri gli danno ragione. Secondo dati del governo federale, tra il 2000 e il 2010 le iscrizioni all’università sono aumentate del 37%.

D’altro canto, questo panorama assai più variopinto presenta una nuova serie di problemi. Ad esempio si stanno allungando i tempi medi che gli americani impiegano per completare i propri corsi di studio.

Se in università tradizionali come Notre Dame, Georgetown, Columbia e Yale, che grazie al prestigio del proprio brand, si possono permettere di selezionare i candidati migliori e addebitare tasse universitarie da 40-50 mila dollari l’anno, circa il 90% di studenti si laurea in corso, ovvero entro quattro anni, a livello nazionale solo il 54% di iscritti finisce entro sei anni (questo, e non quattro anni, è lo standard scelto dal governo di Washington per le statistiche sul completamento degli studi universitari).

Un problema che solo in parte colpisce gli studenti ventenni di università pubbliche, in particolare quelle meno costose ma anche meno selettive (gira per Internet una famosa battuta che recita  “finire l’università in quattro anni è come andarsene da una bella festa alle 22.30”). Ma che affligge soprattutto gli studenti non tradizionali, come quelli part-time, che hanno sì meno debiti, ma anche meno tempo di studiare perché impegnati al lavoro e a casa, poiché si tratta soprattutto di adulti con famiglie e figli (tra

questi solo circa il 20% si laurea entro sei anni). E quelli delle università a scopo di lucro, reclutati per aumentare i profitti dei college ma non necessariamente preparati né a livello accademico né organizzativo per completare un corso di studio universitario - e solo malamente sostenuti dagli istituti che finiscono per frequentare (di questi il 40% finisce in sei anni o meno).

Il processo di globalizzazione degli ultimi trent’anni, che grazie anche alla manodopera a basso costo dei Paesi in via di sviluppo ha colpito duramente l’industria manifatturiera in occidente, privando i sindacati del loro potere contrattuale e indebolendo i colletti blu, ha tagliato le gambe anche alla classe media americana cresciuta negli anni Cinquanta e Sessanta.  Ma, almeno in America, il sistema educativo nazionale fatica a fare spazio alle esigenze dei nuovi studenti non-tradizionali e rischia così di creare una nuova underclass di disillusi, gente che si è indebitata per studiare ma che, per una ragione o per l’altra, si trova comunque senza una laurea e senza un posto di lavoro adeguato. Una contraddizione se si pensa che una forza lavoro meglio istruita giova non solo alla salute delle nostre economie, ma anche a quella delle nostre democrazie. 

Valentina Pasquali

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