UNIVERSITÀ E SCUOLA

Concorsi universitari: si riparte. Ma per andare dove?

Con due Decreti Direttoriali del Ministero dell’Istruzione, dell’Università e della Ricerca (MIUR), uno del 27 giugno sulle procedure per la costituzione delle commissioni e uno del 20 luglio per le domande di partecipazione all’abilitazione nazionale, ripartono i concorsi universitari per professori associati e ordinari (i ricercatori, fino a poco tempo fa primo livello della carriera universitaria, sono oggi reclutati solo a tempo determinato). La scadenza per presentare le domande è stata fissata al 20 novembre prossimo.

L’ultimo concorso per accedere al ruolo di professore associato o ordinario è stato bandito nel novembre 2008. Sono passati quattro anni. Tanti, troppi. In questi anni la comunità accademica si è assottigliata ed è invecchiata. Si rischiava di perdere una generazione di giovani e di demotivare chi vede la propria carriera accademica bloccata indefinitamente. Era quindi importante ripartire per cercare di evitare danni ulteriori e irreparabili a un settore strategico per il futuro del Paese.

Eppure molte sono le perplessità sollevate dalle nuove procedure, che hanno come riferimento la cosiddetta “riforma Gelmini” dell’università (legge 30 dicembre 2010 n. 240, della quale non si parla più ma che continua a produrre effetti deleteri). La maggior parte delle critiche si appuntano sull’uso eccessivo e spesso disinvolto di parametri quantitativi (come il numero di articoli o libri scritti e il numero di citazioni) come misura del merito sia dei commissari sia dei candidati. Questi parametri bibliometrici sono stati definiti, su mandato del MIUR, dall’Agenzia Nazionale di Valutazione del sistema Universitario e della Ricerca (ANVUR). Una critica serrata su come siano stati definiti e aggiustati via via i parametri bibliometri e i loro trattamenti statistici è oggetto di vari interventi (si veda per esempio il sito www.roars.it). Qui non entriamo in queste questioni, assai interessanti ma troppo tecniche. Ci interessa invece sottolineare in generale i limiti e i pericoli dell’utilizzo dei meri indicatori bibliometrici per valutare il merito, evidenziati da un ampio dibattito a livello internazionale. Istituzioni prestigiose, come l’Accademia delle Scienze francese, hanno sottolineato che l’uso degli indicatori bibliometrici può avere forse una sua giustificazione nella valutazione di grandi strutture (atenei, enti di ricerca, gruppi di dipartimenti, facoltà o scuole), ma risulta inadeguato quando non controproducente nella valutazione dei singoli. L’eccessiva fiducia nel nesso tra numerosità della produzione e qualità, figlia del mito aziendalista del nostro tempo, può ipotecare in modo serio i futuri sviluppi del sapere con tutte le sue ricadute materiali e immateriali. Per esempio, può influire negativamente sulle ricerche che richiedono tempi lunghi e che hanno spesso nell’immediato scarsa rilevanza in termini bibliometrici. Si privilegiano così le ricerche di moda e si mortificano le ricerche innovative e transdisciplinari. Si rischia in tal modo di far sparire quelle regioni di confine della scienza che, come scriveva Wiener il padre della cibenetica, “offrono le più ricche opportunità” per lo sviluppo scientifico e che “sono allo stesso tempo le più refrattarie alle tecniche in voga dell’attacco di massa e della suddivisione del lavoro”.  

Queste considerazioni sembrano non aver fatto presa né sui politici né sull’opinione pubblica. La ragione principale di questo atteggiamento miope risiede nell’attacco contro l’università e gli enti di ricerca pubblici italiani, portato avanti nel nostro Paese da più di quindici anni e spalleggiato più o meno inconsapevolmente dai mezzi di comunicazione. La comunità scientifica italiana è stata, senza nessun distinguo, dipinta come “mafiosa”, “baronale”, “anti-meritocratica”, “fannullona”, ecc. Sia ben chiaro, non si vuole qui sostenere che va tutto bene così, o che là dove si evidenzino comportamenti scandalosi questi non vadano puniti. Ma sostenere che il mondo dell’università e degli enti di ricerca pubblici italiani è allo sfascio vuol dire tradire i fatti: la nostra università forma ottimi ricercatori-docenti, la produzione scientifica colloca il nostro Paese tra i primi al mondo nonostante finanziamenti decrescenti e confusione normativa (leggi: “stato di riforma permanente”).

Facendo leva su questa immagine distorta dell’università, si è deciso di rendere meno rilevante la valutazione qualitativa, quella fatta tra pari (peers review), pensando che questa, troppo soggettiva, finisca per favorire le camarille. Eppure reclutare i singoli in ambito universitario in base al merito richiede uno sforzo di analisi dei lavori per prevedere i potenziali sviluppi nel futuro sulla base della qualità delle ricerche svolte, della loro originalità e della loro autonomia. Proprio quello sforzo che ha permesso in passato e permette oggi in altri Paesi il reclutamento in base al merito. Infatti, né l’Unione Europea né i Paesi con cui ci confrontiamo si sono mai sognati di adottare criteri simili a quelli che si ritrovano nelle nuove procedure concorsuali italiane. Invece di annacquare con vincoli bibliometrici automatici la responsabilità dei commissari, bisognava operare in senso opposto incentivando scelte virtuose e punendo scelte sbagliate.

Coloro che sostengono, anche all’interno della comunità scientifica, le scelte operate dal MIUR e dall’ANVUR, fanno propria l’immagine distorta dell’università italiana nel suo complesso (spesso non accorgendosi di generalizzare la propria esperienza personale) e ritengono che una procedura che eviti, almeno in parte, il reclutamento del parente o dell’amante sia comunque un passo avanti rispetto all’esistente. Ma qui in gioco non è la diminuzione di dannosi comportamenti devianti, ma il destino dell’università e in generale della produzione di sapere nel nostro Paese.

Due note per concludere. La legge prevede che ogni anno venga avviata una procedura per acquisire l’idoneità nazionale. Perché allora questa strana fibrillazione da “ultima sponda”?Perché la storia insegna. Nel nostro Paese negli ultimi trent’anni sono state sperimentate svariate modalità di concorso (nazionali o locali, con commissioni votate o sorteggiate, ecc.), ma mai una modalità di concorso è davvero andata a regime. Dopo poco, la modalità di reclutamento veniva azzerata senza di solito aver rispettato le cadenze pattuite per i concorsi, e senza aver seriamente avviato una programmazione dei posti e una seria valutazione delle procedure messe in atto. Dopo un lasso di tempo variabile di blocco delle assunzioni si ripartiva con una nuova procedura. Molti quindi vivono questo concorso come l’ultima possibilità. Anche questo è un male tutto italiano che purtroppo continua a riprodursi.

La seconda nota riguarda il silenzio di gran parte della comunità scientifica. In gioco c’è il destino dell’università italiana. Eppure né la Conferenza dei Rettori o altre realtà rappresentative del mondo universitario (fatta eccezione per alcune prese di posizione del Consiglio Universitario Nazionale o di suoi segmenti), né accademie prestigiose come l’Accademia dei Lincei hanno stigmatizzato i pericoli insiti in queste scelte. Purtroppo è prevalso in molti casi l’opportunismo mirante a salvare privilegi e interessi di parte. Senza rendersi conto che o l’università si salva nel suo complesso o i piccoli orti oggi verdi finiranno per soccombere di fronte alla siccità crescente intorno a loro.

 

Giulio Peruzzi

 

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