CULTURA

Gli anni padovani di Alfredo Rocco, il giurista del fascismo

Giurista di fama, Alfredo Rocco fu l’architetto ed esecutore materiale della fascistizzazione dello stato: uomo politico e intellettuale di regime comparabile per importanza, a detta di Norberto Bobbio, solo con Giovanni Gentile. La sua figura viene ora presa in esame in un libro di Giulia Simone: Il Guardasigilli del regime, l’itinerario politico e culturale di Alfredo Rocco (Franco Angeli 2012). Il volume getta nuova luce su questa figura centrale del regime e della cultura italiana della prima metà del ‘900, concentrandosi in particolare sugli anni padovani: Alfredo Rocco insegna all’università di Padova, dove si avvicina alla politica entrando a far parte dell’Associazione Nazionalista Italiana, dal 1910 fino al 1925. Profesore di diritto commerciale, deputato alla Camera del Regno dal 1921, da Padova vedrà in quegli anni l’ascesa prima di D’Annunzio e poi di Mussolini, muovendo poi per la successiva carriera romana con la nomina a ministro di Grazia e giustizia nel 1925.

Primogenito di una famiglia che Montanelli definirà "un allevamento di cavalli di razza" (anche i fratelli Arturo e Ugo insegneranno diritto all’università, mentre l’altro fratello Ferdinando arriverà a presiedere il Consiglio di Stato), Rocco nasce a Napoli nel 1875. Negli studi si dimostra subito molto dotato, conseguendo la libera docenza e insegnando materie giuridiche a Urbino, Macerata, Parma e Palermo, prima di ottenere la cattedra di diritto commerciale a Padova. Qui Alfredo Rocco aderisce all’ANI, con la quale entra in consiglio comunale nel 1914 e partecipa alla campagna interventista. Giulia Simone si sofferma sui conoscenti, amici e sodali del professore, attraverso una serie di ritratti che toccano diversi esponenti del mondo politico, economico e culturale della Padova di quegli anni.

In questo periodo Rocco collabora frequentemente con il quotidiano ufficiale del movimento L’idea nazionale, sostenendo la necessità da parte dell’Italia di espandere la sua area di influenza nel Mediterraneo, in modo da giocare infine un ruolo di primo piano tra le potenze europee. Non mancano nelle sue opere passaggi lucidi, quasi terribilmente profetici, come quando, appena agli albori del conflitto, scrive: “Non si creda, soprattutto, che, terminata la guerra, sarà assicurata la pace. Da questa lotta nessuna delle grandi razze, che vi partecipano, uscirà abbattuta e distrutta: ma qualcuna, certamente, uscirà umiliata. Quel tanto che occorre, dunque, per indurla a preparare la rivincita, e se umiliata uscirà la grande razza germanica, si può essere certi che la rivincita non si farà attendere né quaranta né trenta anni”. (cit. nel libro a p. 148).

Dopo la guerra Rocco tenterà di convincere Gabriele D’Annunzio a tentare la presa del potere manu militari. Uno studioso del diritto e della legalità che cerca di organizzare un colpo di stato: non è il solo paradosso di quest’uomo, caratterizzato, secondo l’autrice, da un profilo “sicuramente sfuggente; versatile nei ruoli, ma coerente rispetto ad una determinata idea di Stato, fondamento di ogni scelta da lui operata”  (p. 9). Un’idea basata sul principio organicistico della società che, opposto alle concezioni individualistiche, influenzerà profondamente l’ideologia fascista e lo stesso Mussolini.

Nel 1921 lo studioso viene eletto in Parlamento nella lista dei blocchi nazionali assieme ai fascisti, prendendo 17.321 preferenze. Col fascismo Rocco percorre tutte le restanti fasi della sua carriera pubblica: prima come deputato, poi come presidente della Camera – negli anni del delitto Matteotti e dell’Aventino – e infine, per quasi otto anni, come ministro di Grazia e giustizia. Anni fondamentali per l’organizzazione del regime, a cui Rocco dà un contributo determinante, in particolare nella conclusione dei Patti Lateranensi, nella riforma del diritto del lavoro e soprattutto nella promulgazione del codice penale, del codice di procedura penale e delle leggi sull'ordinamento penitenziario.

Il codice penale che porta il suo nome è il frutto di un percorso legislativo di 5 anni, fino al 1930, quando viene promulgato assieme al codice di procedura. Il precedente Codice Zanardelli, entrato in vigore nel 1890, recava una chiara impronta liberale: oltre a riaffermare i fondamentali principi di garanzia di derivazione illuministica, non ammetteva l'estradizione (neppure dello straniero) per i reati politici, aveva abolito la pena di morte e i lavori forzati, presentava pene più miti rispetto ai codici anteriori e prevedeva le attenuanti generiche, nonché un’idea riabilitativa della pena. Il nuovo testo, all’elaborazione del quale parteciparono alcuni dei giuristi più brillanti dell’epoca, come Vincenzo Manzini, Enrico Ferri, Edoardo Massari e Arturo Rocco, fratello del guardasigilli, era improntato a una maggiore severità, in nome della difesa dello Stato, introducendo anche nuovi istituti considerati più moderni e adeguati alla prevenzione del delitto, come le misure di sicurezza. Un Codice che, pur profondamente modificato nel corso degli anni, in particolare in seguito alle sentenze della Corte costituzionale che ne hanno abrogato per incostituzionalità molti articoli, rimane tutt'ora sostanzialmente in vigore, nonostante la riforma del settore penitenziario (1974) e del codice di procedura (1989).

Un’opera che tutt’ora gli studiosi riconoscono non priva di respiro e di una sua grandiosità e che affonda le radici nella concezione dello stato di Rocco: un’”armatura d’acciaio” (l’espressione però è di Paolo Ungari), che sola garantisce lo sviluppo ordinato della società civile, secondo una strategia istituzionale che mira a creare uno “stato autoritario di massa”, coerentemente con l’idea di stato del regime. Lo stato come organismo etico, “che domina tutte le forse esistenti nel Paese, tutte le coordina, tutte le inquadra e tutte le indirizza ai fini superiori della vita nazionale”, perché “solo quando lo Stato domina tutte le forze che esistono nel Paese c’è la vera libertà” (p. 181-190).

La parabola inizia la sua discesa nel 1932, quando Rocco viene accantonato senza troppi complimenti da Mussolini, ormai convinto che le sue competenze siano già state sfruttate a sufficienza. Di lì a poco arriverà la nomina a rettore della Sapienza, dove Rocco, che muore nel 1935, avrà comunque il tempo di iniziare quella profonda fase di rinnovamento che porterà alla costruzione della nuova cittadella universitaria.

Daniele Mont D’Arpizio

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