CULTURA

Ground Zero, tempio sepolto dal business

“Desidera un biglietto?”. I ragazzi in divisa, nell’area che conduce all’ingresso, sono intraprendenti; avvicinano i turisti, sorridono, porgono i tagliandi. Sembrano bagarini davanti al Metropolitan o allo Yankee Stadium, e invece promuovono la visita a un colossale monumento funebre. A Ground Zero, o meglio al Memoriale dell’11 Settembre, si dovrebbe entrare solo con una procedura rigida, obbligatoria: prenotazione online, ritiro del pass per l’ora e il giorno concordati, controllo sul posto. Invece, a un anno e mezzo dall’inaugurazione (era il decennale dell’attentato) chi attraversi l’area dove sorgevano le torri gemelle è invitato con calore dallo staff a entrare nella “zona rossa” senza pass né preavviso. Per quanto vasta sia l’area occupata, la sacralità del sito delle torri abbattute è mimetizzata, inglobata nel colossale cantiere del nascente World Trade Center 2.

Da chi arriva per la prima volta in questa zona del Financial District sarebbe lecito attendersi una reazione di sgomento, il volgersi immediato alla catastrofe del settembre 2001. E invece il primo impatto è la vertigine del nuovo che sta sorgendo più imponente, più elegante, più tecnologico di prima. Lo sguardo è prigioniero dell’immensità della ricostruzione, del museo a cielo aperto che ha concentrato in questi isolati newyorkesi l’opera di alcuni tra i più noti architetti del mondo: Libeskind, Calatrava, Foster, Maki. E la Tower One di Libeskind, l’edificio simbolo della rinascita, è vicina al completamento: oggi è già il grattacielo più alto degli States, e una volta terminata dominerà con i suoi 541 metri (1776 piedi, come l’anno della dichiarazione di indipendenza) tutta la parte meridionale di Manhattan.

In questo trionfo di vetro, acciaio, gru, rumori metallici è difficile scorgere qualcosa che non richiami il business, la caparbietà dei grandi lottizzatori e progettisti che, dopo liti sanguinose, si sono spartiti un affare di dimensioni epiche; ma anche la straordinaria capacità americana, dopo la caduta, di rinnovarsi e avanzare, sempre. A grande altezza, sopra un’impalcatura, campeggia un macroscopico “Jesus is great” spruzzato da un operaio: surreale controcanto, in un contesto che non ha proprio nulla di metafisico. Eppure il “recinto sacro”, anche se non si vede, esiste. È sepolto dietro un muro lungo centinaia di metri, che isola e racchiude i 30mila metri quadri che circondano il sito delle Torri. Il percorso per entrare è un lungo corridoio all’aperto tra le alte pareti dei cantieri, a spirale, che costringe a circumnavigare tutta la zona. All’ingresso, controlli come in aeroporto: via cinture, borse, cellulari. Finalmente si entra: il cratere è divenuto una vastissima piazza alberata, scandita da piante a intervalli regolari, identiche per tipo e dimensione. Ai lati, nei quadranti dove poggiavano i grattacieli gemelli, due immense fontane a cascata, circondate dai nomi delle vittime, precipitano l’acqua in due bacini successivi, l’uno sottostante l’altro.

L’effetto non è né consolatorio né mistico, ma una pura “riflessione sull’assenza”, come recita il titolo del progetto: le acque che cadono, appiattite e rallentate nei bacini in basso, sembrano annullate, svanite senza lasciare traccia. Il progetto di Arad e Walker, vincitori del concorso per il Memoriale, è un dialogo ad armi pari tra morte e vita: la piazza sarà un luogo piacevole in cui passeggiare durante la pausa pranzo, ma anche un posto in cui rievocare la disperazione. Tra i due bacini sorge il grande padiglione del Museo, ancora in costruzione.

La conclusione della visita? Il passaggio, come sempre obbligato, per il Museum Shop. L’11 settembre è anche marketing, per condividere il sostegno a chi non vuole dimenticare. Così si oltrepassano felpe dei pompieri, berretti della polizia, spille rievocative, t-shirt, gioielli “patriottici”. L’uscita dal Memoriale è come l’entrata: un corridoio all’aperto, a spirale, dal quale si rispunta nel meraviglioso caos edilizio mentre La Tower One, onnipresente, riflette il tramonto sulla baia. Si esce turbati e un po’ confusi: un tempio, una piazza firmata, uno shopping center? Tutti e tre. Altrimenti non sarebbe America.

Martino Periti

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