SCIENZA E RICERCA

Il mistero originale

Vyvyan Evans, docente di linguistica presso la Bangor University, in Galles, ne è convinto: la teoria della “grammatica universale” di Noam Chomsky è semplice, potente, ma completamente sbagliata. Non esiste un “organo del linguaggio” specifico dell’uomo. Il linguaggio non è un istinto, apparso improvvisamente nella storia evolutiva della nostra specie. Ma è il frutto di un processo lento, di una co-evoluzione tra la fisiologia del cervello e dell’intelligenza. I motivi dell’affondo alla teoria una volta egemone ma oggi abbastanza criticata di Chomsky, Vyvyan Evans li ha esposti in un libro, The Language Myth: Why Language Is Not an Instinct, da poco uscito in Gran Bretagna e riassunti in un articolo postato su Aeon, una rivista online, lo scorso 4 dicembre.

Non ci sono prove sperimentali decisive né a favore della teoria di Chomsky né a favore del suo (nuovo) detrattore. Cerchiamo, allora, di capire perché, mezzo secolo fa, Chomsky ha proposto l’idea della “grammatica universale” innata in ogni uomo e depositata in un “organo del linguaggio”. E perché, poi, più di 30 anni dopo, un suo allievo critico, Steven Pinker, abbia modificato l’idea del maestro parlando di un “istinto del linguaggio” che, in ogni caso, non soddisfa Vyvyan Evans.

Il problema dell’origine del linguaggio – o meglio, dell’origine delle lingue – è piuttosto antico. Ne parlava già la Bibbia, nell’Antico Testamento. Quando gli uomini parlavano una sola lingua, narra il libro sacro a ebrei e cristiani, costruirono una torre così alta da sfiorare il cielo. E da spaventare Dio. Che trovò un’unica soluzione per ridurre tanta potenza: mescolare il linguaggio, moltiplicare le lingue, rendere ciascun uomo incapace di comunicare con tutti gli altri.

Alcuni leggono nella vicenda biblica della Torre di Babele l’indicazione che il linguaggio umano non è solo la capacità di comunicare attraverso un sistema di segni (fisici, sonori o scritti). Il linguaggio è (sarebbe) qualcosa di più. È, come sostiene Steven Pinker, la capacità di plasmare gli eventi nella mente altrui. E poiché il linguaggio è una funzione condivisa, comune a tutti gli uomini, ogni membro di un gruppo ha la possibilità, scrivendo e (soprattutto) parlando, di plasmare gli eventi nella mente di tutti gli altri. Il linguaggio ha, dunque, una dimensione sociale, perché mette in relazione le menti e crea una rete di informazione condivisa, che rafforza e conferisce appunto potenza alla società degli uomini. 

Già, ma come percepiamo il linguaggio? Come lo impariamo? E come ha avuto origine? E poi il linguaggio è una caratteristica specifica di Homo sapiens o anche altre specie animali hanno la capacità di plasmare gli eventi nelle menti dei loro simili?

Il linguaggio è stato al centro di una continua attività di ricerca scientifica, che si è intensificata nella seconda parte del XX secolo e, come ricorda Evans, ha avuto un’accelerazione nel XXI secolo, sia con scoperte di tipo paleontologico sia con lo sviluppo delle tecniche di neuroimaging che consentono di “vedere” dentro il nostro cervello mentre agisce e, anche, mentre parla.

Così oggi, sebbene non siamo in grado di fornire una teoria completa, siamo quanto meno in grado di avanzare alcune fondate ipotesi sulla percezione, sull’origine e sulla diffusione in natura del linguaggio. Siamo cioè in grado di fornire alcuni tentativi di risposta, non ancora consolidati, a ciascuna delle tre domande che abbiamo posto.

La percezione del linguaggio. Nel 1861 Pierre Paul Broca effettuò l’autopsia sul cadavere di un suo paziente cui un ictus cerebrale aveva tolto la capacità di pronunciare le parole, pur avendo conservato la capacità di comprenderle. Il neurologo francese si accorse che l’ictus aveva danneggiato un’area specifica della corteccia cerebrale, la parte posteriore del lobo frontale di sinistra. Broca aveva dunque scoperto che quell’area del cervello sovraintende all’espressione del linguaggio.

Alcuni anni dopo il tedesco Karl Wernicke – studiando il cervello di un altro paziente perfettamente in grado di parlare, ma incapace di capire e di ripetere le parole pronunciate da altri – individuò una lesione specifica in un’altra area cerebrale, localizzata nel lobo temporale di sinistra, peraltro vicina alla corteccia uditiva primaria. Wernicke aveva dunque scoperto che quell’area del cervello sovraintende alla comprensione del linguaggio.

Oggi sappiamo che, oltre all’”area di Broca” e all’”area di Wernicke”, anche le “aree perisilviane”, disposte ai bordi e sulle pareti della cosiddetta “scissura di Silvio”, e altre aree ancora lungo tutto il lobo parietale sinistro del nostro cervello sono coinvolte nella produzione e nella comprensione del linguaggio. E sappiamo che tutte le aree cerebrali del linguaggio si trovano, in genere, nell’emisfero di sinistra. Per la precisione, la statistica dice che l’emisfero cerebrale dominante del linguaggio nel 91% degli individui umani è quello sinistro, nel 4% è quello di destra e nel restante 5% c’è una equipartizione della funzione tra i due emisferi. 

Sappiamo inoltre che il cervello, anche per quel che riguarda il linguaggio, è decisamente plastico: se una lesione interviene a bloccare la funzione linguistica nell’emisfero sinistro del cervello di bambini di età inferiore ai sei/otto anni, è l’emisfero destro che se ne assume il carico, pur con qualche difficoltà e imperfezione, generando sue aree del linguaggio.

Di più. Come sostiene Evans, le tecniche di neuroimaging hanno dimostrato che la funzione linguaggio non si svolge in un’area specifica o poche aree ben localizzate del cervello, ma in qualche modo coinvolge l’intera massa grigia.  

Sappiamo, infine, che il linguaggio è una funzione cognitiva generale, che non include solo la lingua parlata, ma anche la capacità di esprimersi con la scrittura, sia alfabetica che ideografica, con i segni dell’alfabeto dei sordomuti e persino per gesti (mimica). Lesioni cerebrali all’emisfero sinistro, infatti, possono provocare una incapacità a esprimersi anche nei sordomuti, attraverso la scrittura o i gesti.

Infine, sostiene Evans, le lingue umane sono così diverse tra loro che ricondurle a una base comune – a una comune grammatica – è impresa ardua, se non impossibile.

La generazione del linguaggio. Tutte queste aree formano, sostiene Noam Chomsky in quella che a lungo è stata considerata la teoria standard della psicolinguistica, un vero e proprio “organo del linguaggio”. L’idea del linguista americano è che Homo sapiens, e solo lui, possegga nel suo cervello una struttura funzionale innata che lo mette in grado di apprendere, in poco tempo e senza specifiche istruzioni, la lingua che parlano i suoi genitori o la comunità in cui si trova a vivere. Insomma, ciascuno di noi possiederebbe già alla nascita la forma basilare di tutti i linguaggi umani: una “grammatica universale” capace di generare poi la Torre di Babele delle 6.000 lingue parlate nella nostra epoca e delle migliaia di lingue parlate in ogni altra epoca in tutto il mondo.

Naturalmente l’”organo del linguaggio” di cui parla Chomsky non contiene in sé il vocabolario di tutte queste lingue. Tuttavia contiene le regole generative e trasformazionali di una grammatica universale che, applicate in modo iterativo, è capace di produrre e di comprendere le parole e le frasi di una qualsiasi lingua. Ciascuno di noi applica la “grammatica generativa” fin dall’infanzia per produrre parole e frasi sintatticamente corrette nella lingua che utilizziamo o che stiamo imparando. La “grammatica generativa” è un algoritmo universale, così potente che è in grado di farci inventare, anche a pochi mesi di età, parole e frasi che non abbiamo e non avremmo mai potuto sentire prima. È un algoritmo creativo. 

L’esclusività del linguaggio. Noam Chomsky è convinto che questo prezioso "organo innato del linguaggio" sia specifico dell’uomo. Nessun altro animale lo possiede. Esso è il frutto di un unico e decisivo salto evolutivo. Alcuni psicologi e alcuni antropologi sono convinti anche che esso sia una specificità della nostra specie, di Homo sapiens: nessun altro uomo, prima di noi, possedeva l’"organo del linguaggio”. Molti sono infatti convinti che il suo articolato linguaggio consenta all’uomo di avere relazioni sociali di qualità diversa rispetto a ogni altro animale. E altri, ancora, sono convinti che i processi cognitivi seriali tipici del linguaggio umano siano l’origine e il fondamento stesso della coscienza e del libero arbitrio della nostra specie. Ne consegue che il linguaggio è alla base di una catena di fattori distintivi tra sapiens e tutte le altre specie animali. Questa catena sarebbe costituita, appunto: dal linguaggio; dalla coscienza e dalla coscienza di sé; dal libero arbitrio.

Tutte queste convinzioni fondate sull’idea dell’esistenza di un “organo del linguaggio”, sostiene Evans, sono state falsificate almeno dagli ultimi studi sui Neandertal. Quei nostri cugini avrebbero avuto un apparato fonetico capace di linguaggio forbito e una necessità non inferiore alla nostra di utilizzarlo all’interno di gruppi sociali non meno numerosi e con una cultura non meno avanzata di quella dei sapiens.

Queste e altre evidenze fattuali inducono a credere (anche se non in modo conclusivo) che né il linguaggio, né la coscienza e forse neppure l’autocoscienza, siano appannaggio esclusivo dell’uomo. Ci sono vari animali che possiedono un linguaggio, anche se certamente meno evoluto e articolato del nostro. Ci sono alcuni primati (soprattutto i bonobo, una delle due specie note di scimpanzé) che mostrano di comprendere, almeno in parte, il linguaggio degli uomini e mostrano di apprendere, sia pure più a fatica di un cucciolo d’uomo, le regole del linguaggio umano. Certo, non avendo la giusta fisiologia, non riescono a parlare la lingua degli uomini.

L’origine del linguaggio. Evans sostiene che tutte queste osservazioni lasciano intendere che noi apprendiamo il linguaggio unicamente “per prova ed errore” e rendono più attuale che mai quell’approccio comportamentista à la Skinner che Chomsky aveva criticato e critica tuttora. 

Il guaio è che neppure Evans porta a favore dei suoi argomenti prove empiriche definitive. Cosicché tutte le sue osservazioni costituiscono certamente seri punti di crisi, ma non mettono in discussione l’impianto della teoria di Chomsky, ovvero l’esistenza di un meccanismo innato che consente all’uomo di apprendere in poco tempo una qualsiasi lingua. Però mettono in discussione la tesi di Chomsky che questo meccanismo sia frutto "di un colpo solo" dell’evoluzione e che, quindi, sia un privilegio della specie sapiens

Pinker e molti altri, in realtà, pensano che quello del linguaggio sia, come dire, un organo modulare. Prodotto da una serie di tappe correlate, ma sufficientemente distinte, che si sono succedute in varie epoche biologiche e che hanno coinvolto svariate specie biologiche. In altri termini nulla vieta che altre specie animali possiedano un linguaggio, attuale o potenziale, più o meno articolato. E nulla vieta che altre specie di uomini prima dei sapiens  abbiano avuto un linguaggio, parlato o mimico, abbastanza fluente.

D’altra parte sappiamo, come sottolinea Evans, che il linguaggio e la socialità dell’uomo sono caratteri strettamente interrelati. Nulla vieta che essi siano fattori coevolutivi e sinergici dello sviluppo dell’uomo. Il linguaggio, la capacità di plasmare gli eventi nella mente altrui, ha aiutato l’uomo a formare società sempre più allargate. Ma la spinta a creare gruppi sempre più grandi potrebbe aver favorito l’emergere, con meccanismi di adattamento tipici della seleziona naturale, di un linguaggio sempre più fluente. E insieme, socialità e linguaggio, potrebbero aver favorito ed essere stati, nel contempo, favoriti dall’evoluzione della fisiologia dell’uomo. 

L’uomo è un prodotto di vari fattori coevolutivi. Nulla vieta e, anzi, tutto lascia presumere che anche il suo linguaggio sia un prodotto di una serie di fattori coevolutivi. Cosicché la tesi di Chomsky potrebbe non essere sbagliata, anche se fosse il frutto non di “un colpo solo” ma di un processo evolutivo. 

Pietro Greco

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