CULTURA

Il Novecento, secolo di genocidi

“Un popolo mite e fantasticante che è stato cacciato dalle sue terre ancestrali ed è stato completamente annullato”. Poche parole per ripercorrere il destino degli armeni e la storia di una famiglia. Ne La masseria delle allodole, e in generale in quasi tutte le sue opere, Antonia Arslan, scrittrice padovana di origine armena, si è concentrata sulle “memorie oscure” di “uno sterminio programmato dall’alto per eliminare una minoranza”, seguendo le tracce dolorose (e personali) di un genocidio per lungo tempo dimenticato, riemerso, nella sua peculiarità, dopo un lungo silenzio, grazie agli studi e alle ricerche fatte tra il 1980 e oggi, e alle testimonianze dei pochi sopravvissuti e degli spettatori di quel massacro. Tra questi Henry Morgenthau senior, ambasciatore degli Stati Uniti nell’Impero ottomano tra il 1913 e il 1916, e negli anni Venti anche il giurista polacco di origine ebraica Raphael Lemkin, che venne a conoscenza di quanto accaduto e iniziò a raccontare. 

Sarà proprio Lemkin, nel 1944, anche alla luce dei crimini commessi in quel periodo nei confronti degli ebrei, a coniare il termine genocidio (che inizialmente provò a definire come barbarie), composto dalla radice greca genos, ‘razza’, e dal suffisso latino -cidio, ‘uccisione’.Ovvero“gli atti commessi con l'intenzione di distruggere, in tutto o in parte, un gruppo nazionale, etnico, razziale o religioso in quanto tale”; attiriconosciuti come crimine il 9 dicembre del 1948, nella seduta delle Nazioni Unite, il giorno prima della Dichiarazione universale dei diritti umani. Proprio le ultime parole, “in quanto tale”, in inglese as such, “caratterizzano e distinguono il genocidio dagli altri crimini di guerra e contro l’umanità, perché chi uccide non individua una colpa, ma riconosce un gruppo da neutralizzare in quanto tale”, spiega Marcello Flores, professore di Storia comparata e storia dei diritti umani all’università di Siena, recentemente ospite dell’ateneo padovano, in occasione del seminario Guerre e Genocidi del Novecento

“E così, ora dopo ora, giorno dopo giorno, si attuò la maledizione degli armeni, anche per le donne, i vecchi, i bambini della piccola città – si legge ne La masseria delle allodole - Ogni giorno portò il suo orrore quotidiano”. Il 24 aprile 1915 inizia il massacro da parte dei Giovani Turchi nei territori dell’Impero ottomano. Sono trascorsi quasi cent’anni. 

In armeno Medz yeghern è “il grande male”. La verità è che nel cosiddetto “secolo dei genocidi”, accanto alla Shoah e alla tragedia armena, trovano posto altri grandi mali: quelli del Ruanda del 1994 e dell’ex Jugoslavia del 1995. E ancor prima, nel 1904, il genocidio degli Herero, “in Namibia, un massacro totale con l’85% della popolazione sterminata, nonostante i numeri, circa 80.000 morti, possano fare poco effetto se confrontati con quelli, decisamente superiori, della Shoah - precisa Flores – Ma, nel caso degli Herero, ci si trova di fronte all’annientamento quasi totale di un popolo”. Uno sterminio pressoché sconosciuto, consumatasi già agli inizi del Novecento. Ecco che allora una riflessione, sulle origini del genocidio stesso, è d’obbligo. In Modernità e olocausto anche Zygmunt Bauman definisce e riconosce questo fattore nuovo, moderno: l’individuazione di un gruppo da criminalizzare e distruggere “in quanto tale”. Non ci si trova, dunque, di fronte a un nemico da sconfiggere perché portatore, in quel contesto, di una colpa, di una responsabilità. “Nel passato si riteneva che i gruppi da eliminare lo fossero in una determinata circostanza bellica – sottolinea Flores – Roma, per esempio, decide di distruggere Cartagine perché in quel momento vuole impedire a quest’ultima di costituire una minaccia, ma non continuerà a infierire, anche in un secondo momento, sui cartaginesi rimasti. Siamo di fronte a un crimine di guerra, certo, ma non a un genocidio”. E continua: “Così come lo sterminio della popolazione indigena negli Stati Uniti d’America, che non è il frutto di un disegno pianificato. È il risultato di una politica violenta e di sopraffazione che però non ha come obiettivo la distruzione totale”.

“La gran parte degli studiosi ritiene, dunque, che il genocidio sia il frutto della modernità”, anche se alcuni, tra cui l’australiano Ben Kiernan, autore del libro Blood and soil. A world history of genocide and extermination from Sparta to Darfur, ne hanno ricostruito la storia partendo da molto lontano. In realtà, il genocidio si mostra strettamente legato al Novecento e trova nel contesto della guerra “l’ambiente ideale per poter essere compiuto”. In particolare, appunto, nella guerra totale del XX secolo, “che trasformò i civili in obiettivi, rendendo più ampia la prospettiva del conflitto”, in una situazione di radicalizzazione e accelerazione delle violenze in prossimità della disfatta. Partendo da qui, dal binomio guerra-genocidi e dalle risposte date dalla comunità internazionale mentre avvenivano gli stermini, oggi è importante riflettere su memoria e futuro. Per non dimenticare e prevenire ulteriori massacri. 

Francesca Boccaletto

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