CULTURA

Il tango: una storia politica

È sempre difficile confrontarsi con un mito, non solo perché significa chiedersi come sia nato e chi lo abbia fatto diventare tale. E il tango, certo, è un mito, sancito perfino dal recente riconoscimento di patrimonio culturale immateriale dell'umanità. Con il quale diventa ancor più difficile misurarsi, quando si sceglie una strada capace di spiazzare anche conoscitori e semplici appassionati, concentrandosi non tanto sulla sua evoluzione artistica quanto sui significati che ha ricoperto nel suo intrecciarsi ai rivolgimenti della storia argentina, diventando nel contempo il "simbolo collettivo" di un popolo. Se si decide di raccontarne - con un termine volutamente provocatorio - la storia politica, dalla nascita nella seconda metà dell'ottocento fino ai giorni nostri.  

A scegliere questa via è Dimitri Papanikas, storico, giornalista e critico musicale nel suo La morte del tango. Breve storia politica del tango in Argentina

Ma come sta il tango oggi? Apparentemente, benissimo: non si è mai ballato così bene, nel mondo, e forse neppure così tanto. I riconoscimenti fioccano, le autorità fanno  a gara nel promuoverlo, tutelarlo e celebrarlo, con le iniziative più disparate – dai festival al recupero delle incisioni storiche, fino alla realizzazione di monumenti a volte artisticamente discutibili. Accademie e corsi sono frequentatissimi, canali radio lo trasmettono in esclusiva, via etere e web. Anche i presidenti della repubblica se ne sono valsi come strumento diplomatico. Solo a Buenos Aires lo si balla in più di 300 milonghe e l'indotto turistico che muove è una delle principali risorse della capitale, città del tango per eccellenza. 

L'identità collettiva degli argentini, insomma, si riassume nel tango, e il tango "è" l'Argentina. Ma proprio qui cominciano i probemi. Perché il tango, come del resto molte altre tradizioni popolari nel mondo, è tanto celebrato quanto ormai svuotato, nota l'autore. Vive di eventi, ma ha perso da tempo la sua base sociale, la sua particolarissima lingua, la sua funzione di racconto della vita quotidiana in tutti i suoi aspetti, in modo non dissimile da quanto accaduto a un'altra musica nata nelle cantine per far ballare e divenuta nel tempo musica colta e "universale", il jazz. 

Non esiste più il lunfardo, l'argot meticcio dell'immigrazione europea dei primi decenni del secolo che dava sfumature e mistero alle parole del tango canzone, e non c'è più il popolo di marginali che lo ballava nelle pieghe della città-portofacendone il punto di incontro di ricchi e poverissimi, a cavallo fra le due guerre mondiali. Non ci sono più neppure gli impiegati, gli operai, gli immigrati dalle province dell'interno come dall'Europa distrutta che nella decada de oro del secondo dopoguerra, ne avevano fatto la colonna sonora del proprio riscatto e poi delle proprie paure, negli anni del regime di Juan Domingo Peròn. 

Non è più il tempo della poesia di Osvaldo Pugliese che raccontava in versi le speranze e le miserie porteñi. Ed è passata l’epoca del suo contaminarsi col jazz e della ricerca musicale che ne ha decretato l'ultima grande fioritura artistica. Inutile cercare un Dizzie Gillespie alla scoperta di una sala da ballo per celebrare l’incontro tra la sua tromba e il bandoneon, la “fisarmonica” degli immigrati tedeschi divenuta simbolo del tango. Non ci sono nuovi Piazzolla capaci di trasformarne il linguaggio fino a esprimere sintesi inedite.

Meticcio, d'altronde, il tango lo è sempre stato: nato da apporti diversissimi in cui la musica criolla si mescolava con le melodie di spagnoli e italiani, tedeschi, polacchi ed ebrei senza perdere del tutto il contatto con i ritmi africani portati in città dagli schiavi liberati nell'Ottocento. Negli anni Venti aveva conquistato Parigi quando ancora la Buenos Aires bene inorridiva a sentir parlare di quel ballo "da bordelli". Era poi stato sequestrato – e depurato dai suoi aspetti più sensuali – dalla buona borghesia fra le due guerre, per tornare ancora  popolare, sconfiggendo la censura e portandosi dietro il suo gergo pieno di parole di tutte le lingue, al tempo del primo governo populista e autoritario di Peròn. 

Fin da subito era stato fenomeno commerciale e di spettacolo. Con le prime registrazioni per grammofono, con i dischi e il cinema, con la radio e le aspettative di un pubblico lontano che vivevano in parallelo alla sua continua reinvenzione nelle cantine e nelle sale da ballo plateñe.

Un candidato difficile a bandiera di una nazione, insomma, per le troppe storie che contribuivano alla sue molteplici identità. Eppure – questa la tesi di Papanikas – è il "sequestro" del tango da parte delle autorità, per renderlo simbolo ufficiale e brand  riconosciuto dell'argentinità, il vero problema del tango, e non da oggi. 

Se la rinascita attuale del tango può essere datata agli anni Novanta e ha certamente a che fare con la necessità di trovare un elemento di unificazione che rendesse possibile voltare pagina dopo la dittatura militare, il suo assurgere a simbolo nazionale risale proprio all’esperienza delle giunte militari, fin dagli autori del golpe che spodestò Peròn nel 1955. Simbolo conteso, da un lato come dall'altro: con due esempi paradigmatici, l'autore ricorda come il tango sia stato, con Edgardo Cantòn e Julio Cortàzar, strumento di resistenza e simbolo di libertà nell'esilio,  ma anche e contemporaneamente l’oggetto dell’estremo tentativo di rilegittimarsi dei generali che organizzarono un grande festival sudamericano di musica con il tango protagonista, quando il disastro delle Falkland-Malvinas appariva ormai inevitabile.

All’ambiguità non sfuggono neppure musicisti e autori, come nel libro emerge in modo a tratti impietoso. È il caso di Astor Piazzolla, che dà le sue musiche ai film di protesta contro la dittatura di Fernando Solanas, ma che per il suo grande tour europeo all'indomani del golpe aveva accettato i finanziamenti della marina militare, quella che all'Esma torturava e faceva sparire gli oppositori. O di Atahualpa Yupanqui, cui si deve il recupero della musica nativa con una ricerca etnografica trentennale, travolto dal nazionalismo in occasione del conflitto delle Malvinas; o dello stesso Osvaldo Pugliese che – comunista – aveva scritto la gran parte dei suoi tango in prigione e si prestò infine anche lui a sostenere la guerra dei generali.

E proprio la domanda sulla responsabilità individuale degli artisti di fronte alle dittature è il filo rosso del libro. Con l'arte, e non solo musicale, che corre anche oggi il rischio di prestarsi a operazioni ambigue (quando non autoritarie). Afasia artistica e ideologia dell'identità sembrano andare a braccetto e, calate dall’alto, con il sapore quasi mistico di una pretesa "argentinità", segnano l’inaridirsi di una tradizione da troppo tempo autoreferenziale. 

E forse, se il tango rinascerà ancora, sarà in giro per il mondo dove, con il gusto di suonare e ballare, lo si mescola alle musiche e agli strumenti più diversi. Esattamente come succedeva nelle cantine del porto di Buenos Aires, 50 o 100 anni fa.

Michele Ravagnolo

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