SOCIETÀ
Innovare nel mondo globale: ha ancora senso il modello regionale?

Vigneti nella Gaspereau Valley, NovaScotia (Canada). Foto: Gavin Langille
Siamo ormai da diversi anni in piena economia globale e le informazioni possano essere scambiate in tempo reale indipendentemente dalla distanza geografica che separa chi le detiene e chi ne necessita. Ma nonostante l'apparente contraddizione, per tutta una serie di ragioni è fortemente radicata, tra gli studiosi e i decisori politici, l’idea che l’innovazione si realizzi al meglio in contesti locali.
Il concetto risale ai primi anni Novanta, con le definizioni di distretto industriale, di milieu innovateur (Maillat e Crevoisier, 1991), o ancora di business cluster (Porter, 1998) che hanno come modello, tralasciando i tecnicismi che differenziano una definizione dall'altra, distretti produttivi ben noti come la Silicon Valley o la regione tedesca del Baden-Württemberg e, su scala diversa, alcune aree produttive specializzate dell'Italia centro-settentrionale (il distretto delle piastrelle a Sassuolo e altri). In particolare è stata ipotizzata come dimensione privilegiata dell'innovazione quella regionale, nota come Ris (Regional innovation system), che oltre ad avere le stesse caratteristiche, in termini di innovazione, di un più generico "contesto locale", offre il destro a ragionamenti di natura politica, oltre che economica (finanziamenti, piani regionali, infrastrutture e normative ad hoc, ecc.).
Non è difficile immaginare, infatti, che le peculiarità caratteristiche di una determinata area contribuiscano alla capacità produttiva di un'impresa, che specializza il proprio know-how su specifici prodotti per ragioni di natura culturale, sociale, politica, geografica o anche storica (automobili in Piemonte, design in Lombardia, tessile in Veneto, per citare esempi italiani), ma c'è di più.
Poiché gli studiosi per innovazione intendono un qualsiasi cambiamento, interno all'impresa, volto a migliorarne la produttività (un vero e proprio nuovo prodotto, eventualmente capace di dare avvio a nuove imprese, o la modifica di uno esistente, oppure innovazioni di processo: organizzativo, produttivo o di marketing), appare chiaro come la propensione dell'impresa a rivolgersi verso l'esterno costituisca un elemento chiave per la sua capacità innovativa. Più che dal suo interno, infatti, è dal confronto con altre realtà che si prefigura il cambiamento, non fosse altro che per spirito di competizione, o di emulazione. La prossimità geografica, quindi, di un'impresa ad altre imprese innovatrici permette un veloce scambio di informazioni e di lavoratori qualificati – tecnici, sviluppatori, ricercatori – che le veicolano; la presenza di istituti di credito garantisce l'accessibilità ai capitali necessari; la vicinanza ai centri di ricerca (università, laboratori, incubatori) mette a disposizione conoscenze, tecniche e processi all'avanguardia.
Un contesto socio-culturale e politico favorevole (istituzioni attente alle necessità dell'innovazione che definiscono regolamenti non troppo restrittivi, promuovono finanziamenti ecc.) completa il quadro: la singola impresa trae vantaggio da quella che prende il nome di "economia di aggregazione" beneficiando di un effetto network e di economia di scala dovuto alla presenza degli altri attori, ma anche dell'"economia di urbanizzazione", ossia usufruisce di un sistema di infrastrutture e di collegamenti che non sono a suo carico. Anche dal punto di vista del singolo, lavorare in un contesto ad alta densità (di persone, cose e servizi) ha non pochi, facilmente immaginabili, vantaggi.
Eppure sarebbe semplificativo ricondurre il fiorire dell’innovazione necessariamente alle città o ai distretti fortemente sviluppati, come se le imprese non fossero in grado di interagire che con l'ambiente immediatamente circostante, o come se fosse sufficiente trovarsi fisicamente in prossimità perché si instauri il circolo virtuoso dell'innovazione che produce innovazione. Oltretutto, se è vero che i brevetti portano quasi sempre nomi di città, di difficile attribuzione è in realtà la vera origine dell'innovazione cui fanno riferimento e del contesto culturale che la ha prodotta: o perché frutto di collaborazioni, o perché ideata da persone il cui background è dato da un insieme di diverse esperienze, o per ragioni di marketing e di strategie d'impresa.
Il concetto di Ris, dunque – anche nella particolare declinazione italiana di distretto industriale, nata dall'analisi di alcune aree produttive specializzate del centro-nord – se guardato dal lato della sua capacità di produrre innovazione non appare più, a oltre due decenni dalla sua elaborazione, del tutto convincente. In questa direzione, ossia nel mettere in discussione la "regionalità" del concetto di innovazione, sembrano andare i risultati dei recenti studi di David Doloreux, professore presso l'università di Ottawa in Canada, che sul tema ha tenuto un seminario agli studenti della Scuola Galileiana di Padova.
Lo studioso prende come esempio il caso della neonata industria vinicola canadese: mai come per la produzione del vino la realtà geografica in cui l'attività si sviluppa (in enologia terroir è un concetto fondamentale) dovrebbe influire sulla sua riuscita e sulle strategie per meglio riuscire; pertanto Doloreux si sarebbe aspettato, dal confronto delle aziende vinicole nelle tre diverse regioni in cui l'attività ha preso piede all'inizio degli anni Ottanta – ossia in Ontario, in British Columbia e in Québec – di ottenere pattern produttivi significativamente differenti. Nonostante il clima in Québec sia molto rigido, mentre nelle altre due regioni è mitigato dalla presenza dei laghi, e nonostante ciascuna delle tre province possa gestire autonomamente il regolamento sullo smercio di alcolici, la ricerca di Doloreux non ha evidenziato differenze rilevanti nelle caratteristiche aziendali e nelle strategie d'impresa fra le tre regioni, a testimonianza della scarsa influenza del contesto locale sugli aspetti esaminati.
Alle stesse conclusioni giunge lo studio di Doloreux su come le imprese canadesi di diversi cluster si servano delle società di servizi poste nelle vicinanze (i Kibs: knowledge-intensive business services): non è la prossimità a determinare l'interazione Kinbs-impresa, quanto le caratteristiche ed il settore di appartenenza dell'impresa stessa. E va nella stessa direzione uno studio del dipartimento di economia e management dell'università di Padova che rivela come i Kibs veneti non abbiano come orizzonte la regione di appartenenza: il 64% ha un mercato dai confini nazionali, mentre una minoranza di essi (l'11%) ha anche clienti esteri.
Non c'è niente da fare: il mondo ha davvero un orizzonte globale, e vanno via via costruendosi nuove forme di prossimità – pensiamo solo alle potenzialità della Rete e alla mobilità come si è sviluppata nell'ultimo decennio, fattori prima assenti – che superano il concetto di distanza fisica. E anche un altro dato mina il concetto di sistema regionale dell'innovazione così come era stato definito: secondo una ricerca del dipartimento padovano sopra citato, le regioni italiane più innovative (Veneto, Emilia Romagna, Piemonte e Lombardia) non presentano assolutamente la dimensione sistemica tipica dei cluster tipo Silicon Valley, mancando quasi completamente le relazioni di cooperazione dell’impresa con altri soggetti. I nostri distretti industriali sono altro. Solita anomalia italiana, o questa volta ci troviamo a essere dei precursori?
Valentina Berengo