CULTURA
Italiano: l’età dell’oro non c’è mai stata
A fine ottobre su Libreriamo, la piazza digitale dedicata alla cultura, in occasione della settimana della lingua italiana nel mondo, veniva proposta una lista degli errori più frequenti commessi dagli italiani. Una galleria degli orrori che, partendo dall’apostrofo usato a sproposito (si scrive qual è, non qual’è), passava ad analizzare aggettivi (si dice entusiasta, non entusiasto), congiunzioni (E o ed? A o ad?), punteggiatura (virgole e punti da non distribuire a casaccio), cercando di fare chiarezza una volta per tutte. Ne abbiamo parlato con Matteo Viale, linguista e ricercatore all’università di Bologna: “Si tratta di un elenco che in realtà crea un po’ di confusione e mescola errori legati a livelli linguistici molto diversi (ortografia e sintassi) con espressioni neostandard ormai accettate dagli stessi linguisti”. Insomma, non si poteva pensare di partire da lì, da un semplice elenco, per tentare una riflessione sullo stato di salute dell’italiano.
Un pò, dò, stà. Avete letto bene: tre svarioni. E potremmo continuare. Nell’epoca delle chat e dei social network, dell’ansia da scrittura rapida, dei puntini di sospensione e dei punti esclamativi (il punto e virgola sembra essere irrimediabilmente morto), gli errori si moltiplicano. Verissimo. E non è certamente una buona notizia. Dunque, verrebbe da chiedersi, cosa rimane della nostra lingua?
A leggere quanto segue forse non si troveranno d’accordo coloro che amano ripetere: “C’era una volta… l’italiano!”, “Ma però non si dice!”. Scandalizzatevi pure, ne avete il diritto, ma sappiate anche che l’italiano perfetto non esiste e un’età dell’oro non c’è mai stata. L’italiano è una lingua viva e la stessa grammatica è uno strumento dinamico, in evoluzione, non solo un insieme di regole intoccabili. I modelli del passato, poi, non possono valere per il presente e di profeti di sventura sulle sorti future della lingua ce ne sono da secoli, almeno secondo Giuseppe Antonelli, linguista, docente di Storia della lingua italiana all’università di Cassino, conduttore del programma radiofonico di Radio3 La lingua batte e autore del libro Comunque anche Leopardi diceva le parolacce (Mondadori). Allora, cos’è giusto e cosa sbagliato? La linea di confine è labile e, a ben guardare, l’italiano porta segni di maltrattamenti antichi (se così li vogliamo chiamare). Non è cosa nuova, dunque. Leopardi stesso, oltre a rivelarsi sboccato (in una lettera definiva tal Cancellieri “un coglione”, in un’altra faceva riferimento ai “fottuti romani”), utilizzava i congiuntivi con creatività: potremmo parlare di “uso elastico” della lingua, fatto da lui ma anche da altri prima di lui. Chi se la prende con il fantozziano vadi, forse non sa che era già forma leopardiana, come “facci dantesca e venghi boccacciana”. E oggi? Quella del congiuntivo sembra davvero la cronaca di una morte annunciata. Nel 1968, in Più stile all’italiano, Antonio Frescaroli scriveva: “Il congiuntivo sta per lasciare per sempre il discorso dove un tempo aveva regnato da signore incontrastato”. Ma, nonostante gli innumerevoli necrologi, “il congiuntivo continua a circolare tranquillamente in tutta Italia, anche se forse un po’ in crisi d’identità – spiega nel suo libro Antonelli, sulla base di numerosi studi linguistici - A confermarne lo stato di salute tutt’altro che drammatico sono proprio quegli stessi giornali che da tempo rilanciano la notizia della sua morte. In un campione di articoli scelti tra quelli pubblicati nel Corriere della Sera, in Repubblica e nella Stampa tra il 1992 e il 2009, gli indicativi usati al posto di un congiuntivo obbligatorio non superano il 5%, e nei contesti in cui la scelta tra i due modi è legittima rimangono stabili al di sopra del 70%”. Secondo Antonelli, il congiuntivo domina nei fumetti, nei cartoni animati, nelle telecronache sportive, nelle canzoni di successo. E nei testi in rete? Nelle scritture del web, “bisogna ammetterlo, sembra essere un po’ in ribasso”. Ma la verità è che “mettersi a lodare il tempo che fu è un atteggiamento non solo inutile, ma sbagliato – scrive l’autore - Anche perché non va dimenticato che nel 1861, l’anno della proclamazione del Regno d’Italia, gli analfabeti (parliamo di analfabetismo totale, non – come oggi – funzionale, o di ritorno) rappresentavano circa il 73% della popolazione”. E continua: “Invece di rimpiangere il passato, bisogna sfruttare le occasioni che il presente ci offre. Ad esempio il fatto che la scrittura ha ormai invaso, grazie a e-mail, sms e chat, la vita quotidiana di tutti noi (tanto più quella dei giovani); o che Internet ci consente di attingere in maniera immediata a uno sterminato archivio delle più svariate forme di testualità (non solo scritta)”.
Secondo Antonelli, il problema non è la decadenza, la corruzione dei tempi, l’impoverimento della lingua. La questione è un’altra e trae origine da una domanda fondamentale: cosa si è fatto negli ultimi decenni per risolvere questa inadeguatezza? “La sensazione è che, di là dagli sforzi di molti insegnanti (e di molti linguisti), si sia fatto ben poco. Soprattutto in termini di investimento nella scuola, nell’università, nella formazione in generale. Non si è lavorato per innalzare la competenza linguistica (lessicale e testuale) dell’italiano medio: si è provveduto – piuttosto – ad abbassare il livello di tutto il resto”. Alle considerazioni di Antonelli si aggiungono poi quelle di Matteo Viale, che ammette: “Non sono tanto gli errori ortografici a preoccuparmi, ma gli errori di sintassi, più radicati, e quelli legati alla difficoltà di comprensione di ciò che si legge e di organizzazione logica di ciò che si scrive. L’ortografia si può sistemare. La sintassi e la testualità sono il risultato di un percorso”. Un percorso che inizia a scuola, appunto.
Concludendo, è lecito chiedersi dove ci stiano portando le evoluzioni della lingua. Per rispondere a questo domanda, Antonelli introduce la varietà dell’e-taliano, come italiano neopopolare. In un’epoca di neoepistolarità tecnologica in cui, secondo dati Censis diffusi nel 2013, il 90,4% dei giovani under 30 si connette a internet, “saper digitare non equivale a saper scrivere”, certo. “L’italiano digitato è una varietà diversa rispetto all’italiano scritto tradizionalmente inteso”, vero. Ma questa varietà, che si definisce nella sua frammentarietà - “che per le persone colte rappresenta solo una scelta stilistica, tra le tante possibili, ma per tutti quelli che scrivono solamente in queste occasioni diventa l’unico modo di scrivere” - potrebbe rivelarsi una grande occasione. Se vent’anni fa, infatti, l’innovazione linguistica partiva dal parlato, oggi le nuove tecnologie hanno creato le condizioni per l’affermarsi di un italiano scritto informale. “Nella società della comunicazione in cui ci troviamo a vivere, lo scritto è diventato, o sta diventando, un secondo motore del mutamento linguistico – conclude - Ovvero, potenzialmente, un ulteriore stimolo alla crescita, alla diffusione e all’evoluzione della nostra lingua. Uno strumento per rendere l’italiano ancora più ricco, variegato, dinamico”. Con buona pace dei puristi.
Francesca Boccaletto