SCIENZA E RICERCA

Lingue che scompaiono: viaggio tra radici comuni, migrazioni e risvegli

Le stime dicono che nel mondo si parlano tra le 7.000 e 10.000 lingue, ma dietro questa cifra si nasconde una realtà poco confortante: secondo l’UNESCO il 40% di queste è a rischio, e quando una lingua scompare per mancanza di parlanti, non muore soltanto lei, ma un intero patrimonio culturale e intellettuale. Un’intera visione del mondo, insomma, perché le lingue riflettono le modalità del pensiero: anche chi non ha studiato linguistica lo può “sentire” abbandonandosi alla visione del film Arrival di Denis Villeneuve (o, se ha una fantasia sviluppata, anche al racconto di Ted Chiang Storie della tua vita da cui la pellicola è tratta), che tra le altre cose illustra come parlare la stessa lingua (in questo caso quella degli alieni) ci avvicini all’altro: una magia che molto probabilmente i neuro linguisti saprebbero spiegare in modo razionale, ma magari per questa volta ci limiteremo a farci trasportare dalla storia e dalle immagini che riescono a trasmettere il concetto senza nemmeno il bisogno di spiegarlo.

Alieni a parte, qualsiasi manifestazione linguistica, anche la più piccola, anche quella di una microcomunità, è degna di attenzione perché custodisce la ricchezza di un modo di ragionare e interpretare il reale, e può arricchire le persone che provano a interfacciarcisi.
Un recente articolo pubblicato su Nature, firmato da Andrew Robinson, prende spunto da tre libri per interrogarsi sulle sorti delle lingue umane: come sono nate, perché alcune si diffondono mentre altre scompaiono, cosa si può fare per salvarle. E lungo questo percorso ci si imbatte in una domanda apparentemente semplice: perché quasi tutti noi, da Reykjavík a Nuova Delhi, condividiamo la radice di parole come mater? La risposta porta lontano, nella steppa euroasiatica, ma anche dentro i labirinti del potere e della memoria.

La lingua madre di tutte le lingue

Il motivo è perché tutte queste lingue derivano da una famiglia comune, la più diffusa al mondo, cioè quella indoeuropea. Come ci spiega Emanuele Banfi, glottologo e accademico corrispondente della Crusca, di questa “grande famiglia” fanno parte il greco e il latino ma anche l’inglese, il russo, il persiano, l’hindi e decine di altre lingue attuali ma anche estinte.
Secondo Laura Spinney, autrice del libro Proto recensito su Nature, quasi una persona su due nel mondo parla, come prima o seconda lingua, una variante dell’indoeuropeo.

Ma da dove viene, questa superlingua? E come ha fatto a colonizzare metà del pianeta?
La domanda affascina i linguisti da secoli. A dare il via a questa caccia alla lingua madre di tutte le lingue fu nel 1786 William Jones, filologo britannico in servizio nella colonia inglese dell’India, che notò le sorprendenti somiglianze tra parole sanscrite e parole greche e latine, per esempio patēr, e da qui dedusse l’esistenza di un’origine comune. “A partire da Jones — racconta Banfi — si aprì un’epopea linguistica: studiosi di tutta Europa cercarono di ricostruire non solo un albero genealogico linguistico, ma anche di ritrovare la patria originaria di questa proto-lingua, un territorio dal quale poi si sarebbe diffusa in tutto il mondo”.

Una lingua, molte ipotesi

Le ipotesi sono state decine, dall’India alla Scandinavia, dalla valle del Danubio fino, con un tocco di fantasia new age, all’Antartide: l’idea di fondo era che da un unico popolo, portatore di una protolingua indoeuropea, si fossero diramate tutte le lingue note.
“Le teorie si sono moltiplicate nel tempo, spesso con implicazioni ideologiche — spiega Banfi — C’è chi l’ha cercata in Iran, chi in Kashmir, chi addirittura in Scandinavia. In epoca nazista, la Germania cercò di dimostrare che le lingue ‘indogermaniche’ fossero superiori, in un disegno razziale aberrante”.

Una lingua che non esiste (più?)

A questo punto viene spontanea una domanda: ma il proto-indoeuropeo esisteva davvero? Era una lingua vera, parlata da un popolo identificabile?
“Non proprio — risponde Banfi — La protolingua indoeuropea, così come la usiamo oggi, è una costruzione teorica. I linguisti non hanno trovato testi scritti. Quello che hanno fatto è stato ricostruire forme a partire dal confronto tra lingue documentate, ma sono forme ipotetiche, segnate da un asterisco: *mater, *pater, *deiwos…”.

Non stiamo parlando di un idioma storico, ma di un modello astratto, utile per spiegare somiglianze sistematiche. “È impossibile attribuire queste forme a una lingua reale. È solo un modello comparativo” — sottolinea Banfi.
“Oggi — aggiunge — la teoria oggi più accreditata sull’area di diffusione iniziale è quella della steppa pontico-caspica, tra il Mar Nero e il Mar Caspio, dove tra 8.000 e 3.000 anni fa viveva la cultura Yamnaya. A dar forza a quest’ipotesi è stata la genetica: uno studio pubblicato nel 2015 su Nature ha mostrato che la maggioranza degli uomini europei porta nel proprio cromosoma Y tratti genetici riconducibili a quella popolazione.

La genetica è da prendere con le pinze

Il legame tra DNA e lingua, però, va preso con cautela. Come sottolinea Banfi: “La genetica ci dice da dove venivano i corpi, non necessariamente le lingue: la trasmissione linguistica è un fatto sociale e culturale, non genetico”. È dunque il confronto tra discipline — linguistica, archeologia, genetica, antropologia — a rendere il quadro più completo, perché oggi nessuno studia più le lingue da sole, ma lo fa attraverso ricerche interdisciplinari che permettono di formulare ipotesi con basi più solide.

La visione romantica di un’unica lingua madre, un proto-indoeuropeo puro, è ormai abbandonata a favore dell’ipotesi dell’esistenza di un continuum di dialetti, un mosaico di lingue imparentate che si sono influenzate reciprocamente in un’epoca molto remota, per poi diffondersi.

Quando le lingue muoiono

Se il viaggio dell’indoeuropeo è una storia di espansione, quello delle lingue minoritarie è spesso una storia di declino. Il libro Rare Tongues di Lorna Gibb racconta di idiomi che rischiano l’estinzione o sono già scomparsi, e dei saperi che hanno portato con sé.
In Namibia, per esempio, dopo l’indipendenza dal dominio sudafricano, fu scelto l’inglese come unica lingua ufficiale. Un apparente paradosso, visto che era parlato allora solo dallo 0,8% della popolazione, ma sembrava la soluzione più “neutra” per non favorire un gruppo etnico su un altro. Il risultato? L’inglese non è decollato, ma nel frattempo le lingue native sono state marginalizzate.

Questo è uno dei casi in cui si cerca di portare i parlanti verso scelte che magari sono mosse dalle migliori intenzioni, ma che non sempre rispettano i loro valori: in questo caso la maggior parte delle volte il tentativo fallisce, e contribuisce anche a ostacolare quella diversità linguisti che può essere anche una fonte di arricchimento culturale.

“Eppure — sottolinea Banfi — la vitalità di una lingua dipende solo in parte da politiche istituzionali: di fatto una lingua vive se viene usata, se una comunità la percepisce come efficace, se la trasmette, se la difende, altrimenti muore, anche quando viene inserita nei documenti ufficiali di un certo paese”.
Esiste una sinergia complessa tra due forze: da un lato le politiche istituzionali, dall’altro la vitalità interna delle comunità linguistiche: se una lingua è viva nei rapporti quotidiani, nella trasmissione intergenerazionale, nella scuola e nei media, allora può essere trasmessa ai parlanti più giovani e sopravvivere, se invece resta confinata a documenti ufficiali o usi simbolici rischia di fossilizzarsi, come è successo a tante lingue indigene, nominalmente riconosciute ma praticamente abbandonate e quindi dimenticate.

Non esistono lingue minori, solo lingue meno fortunate Emanuele Banfi

Ma una lingua può anche imporsi in un territorio frammentato linguisticamente in virtù di un intento istituzionale. Banfi cita l’Italia come caso esemplare: “I dialetti non sono scomparsi, ma l’italiano si è diffuso grazie alla scuola, ai mezzi di comunicazione, all’unità politica: è un processo storico, non solo linguistico. L’Italia, patria di tante parlate, non ha mai investito davvero nella valorizzazione della sua ricchezza linguistica interna”. Lo dice con una punta di amarezza, perché anche con la comodità di una lingua standardizzata potevano convivere soluzioni diverse, magari più espressive, che invece ora si stanno gradualmente perdendo.

Le lingue possono rinascere

Ma non tutto è perduto: alcune lingue risorgono, anche quando sembravano irrimediabilmente condannate. Il caso più noto è quello dell’ebraico moderno, o Ivrit. “È una lingua rinata dal nulla — racconta Banfi — da quando negli anni Venti del Novecento è stata ricostruita a partire dalla lingua biblica e adattata all’uso quotidiano. Oggi è lingua ufficiale dello Stato di Israele, parlata in università, nella pubblicità, nei social, mentre fino a poco più di un secolo fa non era una lingua parlata: era una lingua sacra, usata nei testi religiosi, nelle preghiere, nei commentari, non nella vita quotidiana. L’ebraico moderno quindi è una lingua nata a tavolino dopo il ritorno di molti ebrei in Palestina, quando si è formato un movimento nazionale che ha deciso di recuperare la lingua biblica. Nel dopoguerra l’ebraico divenne lingua ufficiale insieme all’arabo, e chi immigrava doveva impararlo: esistevano corsi obbligatori per quelli che volevano integrarsi nella comunità israeliana.

L’ebraico, dunque, non è tornato alla vita da solo, ma è stato trascinato nel mondo contemporaneo da una precisa volontà collettiva, sostenuta da strutture politiche e formative, da strumenti di alfabetizzazione e da un forte senso di identità, da una comunità forte e coesa che si riconosceva nell’uso di questa lingua, che per questo ha resistito dopo essere stata introdotta artificialmente.

Ogni lingua è un ecosistema

Oltre al valore identitario, ogni lingua porta con sé saperi preziosi: “In certi studi etnobotanici — ricorda Banfi — si è visto che i nomi locali delle piante in molte comunità indigene erano legati a usi terapeutici: curare ferite, malattie, complicazioni in gravidanza. Quando la lingua sparisce, si dimenticano anche quei saperi”.

Ci sono anche forme linguistiche sorprendenti, come le lingue fischiate, usate in ambienti montuosi o isolati, dove il suono del fischio arriva più lontano della voce. Questi sistemi di comunicazione sono diffusi in tutti i continenti e sono la prova che gli esseri umani modellano il linguaggio anche in risposta alle sfide ambientali, come accade con l’evoluzione.

Infine, ci sono le affinità culturali: “Tra le lingue indoeuropee — nota Banfi — ci sono parole simili ma anche strutture mentali comuni, dai miti agli dèi. Il pantheon indiano condivide vari elementi con quello greco, romano e persino germanico, quindi viene da chiedersi se sia la religione che riflette la parentela linguistica o viceversa”.

Un’eredità da non sprecare

L’articolo su Nature si chiude con un monito scherzoso di J.P. Mallory, autore del libro The Indo-Europeans Rediscovered:

“Risolvere il mistero della patria [di questa lingua] è l’equivalente accademico di cercare di radunare una mandria di gatti”.

Ma se anche non riusciremo mai a trovare “l’origine delle origini”, resta il fatto che ogni lingua, antica o moderna, viva o morente, è un tassello di un mosaico fragile. E come conclude Banfi: “Non esistono lingue minori, solo lingue parlate da meno persone: tutte meritano rispetto, e tutte, se vogliamo, possono ancora raccontarci qualcosa”.

 

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