CULTURA

L’arte dell’obbedienza. La psicologia dei carnefici rivisitata

Nell'ottobre 1965, ai giudici che lo processavano per apologia di reato (per avere cioè pubblicamente, appassionatamente, difeso il diritto all'obiezione di coscienza, a quel tempo tutt'altro che scontato) don Lorenzo Milani scriveva, in una lettera diventata ben presto famosa: “A dar retta ai teorici dell'obbedienza e a certi tribunali tedeschi, dell'assassinio di sei milioni di ebrei risponderà solo Hitler. Ma Hitler era irresponsabile perché pazzo. Dunque quel delitto non è mai avvenuto perché non ha autore. C'è un modo solo per uscire da questo macabro gioco di parole. Avere il coraggio di dire ai giovani che essi sono tutti sovrani, per cui l'obbedienza non è ormai più una virtù, ma la più subdola delle tentazioni, che non credano di potersene far scudo né davanti agli uomini né davanti a Dio, che bisogna che si sentano ognuno l'unico responsabile di tutto”.

Non sarebbe passato molto tempo e quella frase, “l'obbedienza non è più una virtù”, sarebbe stata ripetuta centinaia, migliaia di volte, diventando uno dei Leitmotiv del Sessantotto italiano, grido di battaglia e  di ribellione contro ogni forma di cieca adesione all'autorità.

Eppure, poco prima e poco dopo la lettera di don Milani, nel 1961 e nel 1971, dall'altra parte dell'Atlantico, vennero condotti due esperimenti che parvero dimostrare come, una volta inserito in un ruolo, in una determinata situazione, in un dato gruppo di appartenenza, un individuo tende a seguire passivamente gli ordini che gli vengono impartiti o le regole del gruppo a cui appartiene, perdendo ogni consapevolezza di sé. Come spiegare altrimenti la reazione supina di gran parte delle “cavie” di Stanley Milgram, pronte a infliggere vere e proprie torture a perfetti sconosciuti, solo perché invitate pressantemente a farlo? O il fatto che all'università di Stanford gli studenti di Philip Zimbardo, giovani istruiti e all'apparenza equilibrati, una volta chiamati a calarsi nei panni di guardie e detenuti di un ipotetico carcere, si trasformarono nell'arco di due o tre giorni in un branco di aguzzini da un lato, di vittime sottomesse dall'altro, tanto da costringere lo studioso a interrompere in fretta e furia l'esperimento?

Di questa ipotesi, Zimbardo è rimasto convinto e l'ha di nuovo ribadita nel 2004, quando è stato chiamato a testimoniare, in qualità di perito, nel processo contro le guardie di Abu Ghraib, un'esperienza ripresa nel saggio Effetto Lucifero, tradotto nel 2008 in Italia per Raffaello Cortina. Ma uno studio uscito a novembre sulla rivista "PLOS  Biology" a firma di Alex Haslam, docente alla University of Queensland, e di Stephen Reicher, dell'università di St Andrews, induce a rimeditare su quella teoria.

Autori a loro volta di un esperimento “carcerario”, condotto nel 2002 con il sostegno della BBC,  Haslam e Reicher sono infatti arrivati  alla conclusione che chi ubbidisce a un ordine odioso non è una marionetta inconsapevole, bensì un esecutore attivo e partecipe di un gesto che, in quel momento, considera perfettamente appropriato: “Le brave persone che prendono parte a azioni orribili – spiega Haslam – non lo fanno perché sono diventate d'un tratto passive e prive di raziocinio,  ma perché sono giunte a credere, solitamente influenzate in questo da chi detiene il potere, che quell'atto è giusto”.

Esiste insomma, secondo i due studiosi, un fattore “entusiasmo”, di cui Milgram e Zimbardo non sembravano tenere conto. Tre, in particolare, i dati che, analizzando i risultati del loro esperimento, Haslam e Reicher mettono in luce a sostegno della loro tesi: in primo luogo, i partecipanti non si sono conformati in modo automatico al ruolo che era stato loro attribuito; secondo punto, hanno agito in termini di appartenenza al gruppo solo nella misura in cui si identificano con il gruppo; e infine, l'identità di gruppo non ha coinciso con l'accettazione della posizione assegnata, ma è stata un elemento di forza anche in chiave oppositiva. In conclusione, sintetizza Reicher, “la tirannia non si fonda sull'ignoranza e sulla debolezza dei suoi sostenitori, ma sulla loro convinzione di agire per una grande causa”. Posizioni già espresse dai due psicologi in un saggio del 2006, Rethinking the Psychology of Tyranny, e adesso ribadite con forza – in aperta contrapposizione alle teorie di Zimbardo e, indirettamente, all'idea di “banalità del male” di cui parlava Hannah Arendt – nello studio uscito su “PLOS Biology”.

A Auschwitz come nel carcere di Abu Ghraib, l'obbedienza sarebbe dunque per i due studiosi solo il paravento usato a posteriori per coprire crimini compiuti in uno stato di esaltata e addirittura “creativa” consapevolezza: una teoria che ha suscitato reazioni contrastanti e che merita di essere a sua volta sottoposta a analisi attente, ma che comunque riporta in primo piano quella necessità di un senso critico attivo, quel principio di responsabilità personale, di cui parlava quasi cinquant'anni fa nella sua lettera don Milani.

Maria Teresa Carbone

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