CULTURA

L’emigrato William Shakespeare

Il teatro è gremito e decine di persone sono costrette a restare fuori causa tutto esaurito. D’altronde il momento è solenne: Andrea Pennacchi, accompagnato da Giorgio Gobbo alla chitarra, dimostra un fatto incontestabile: Shakespeare era veneto.

Alcuni critici avevano timidamente ventilato l’ipotesi, ma Pennacchi nel suo spettacolo ha definitivamente dimostrato che le cose stanno davvero in questo modo. La prova suprema sarebbe che, musicando un suo sonetto, gli ABBA hanno inserito non una, ma ben due parole italiane. Ma non basta, perché una di queste due era veneta: “mama mia”. Nella fattispecie, l’attore sente di poter affermare che Shakespeare proviene da Terrassa Padovana: nel Seicento c’era stato il boom di Londra: tutti i veneti, con la loro brava valigetta, privavano la nostra terra del loro talento e partivano. Poveri col miraggio di cambiare la loro condizione, protestanti in fuga dall’Inquisizione, mercanti nel fiore degli anni. Tutti a Londra, come se fosse una grande fiera. Ma non sapevano a cosa andavano incontro, perché a Queen Elizabeth “piace punire”. Sostanzialmente, la cosa più semplice da fare a Londra era morire. Tra le pantegans del Tamigi (“bestie altruiste e socievoli, che danno ospitalità ad un sacco di virus”), ladri, assassini, la peste e le esecuzioni c’erano anche dei passatempi da non sottovalutare: per prima cosa c’era la birra. Poi il calcio, senza regole e una durata precisa, che finiva costantemente in rissa. Poi c’erano i combattimenti tra animali, le visite guidate al Bethlehem, l’ospedale psichiatrico, che fungevano da cabaret per arrivare alle esecuzioni a tema più vario, a seconda delle preferenze: bastonature, impiccagioni e perforazioni delle cartilagini auricolari per gli attori non protetti dai nobili.

E fu proprio per questa penuria di fonti di divertimento che nacque il primo teatro (“The Theatre, come uno che chiama un giornale Il Giornale”).

L’energia di Pennacchi è contagiosa, il pubblico pende dalle sue labbra e percepisce l’amore dell’attore per il drammaturgo inglese (veneto?). Certo, forse Shakespeare il Veneto non ce l’aveva ben presente. Di Verona Shakespeare sa che c’è il mare. Ne “I due gentiluomini di Verona” uno dei due protagonisti arriva tardi a Milano dalla città scaligera perché ha perso la marea. Secondo lui ci sarebbe quindi un tratto di costa che collega Verona a Milano. D’altronde all’epoca poteva capitare che un abitante di Terrassa Padovana non avesse ben presente Verona. Le sue competenze migliorano quando si parla di Padova: ne “La bisbetica domata” dimostra di sapere addirittura che a Padova c’era l’Università. “Però era dal 1222 che c’era l’università, nel Rinascimento a Londra lo sapeva chiunque!” Ci si aspetterebbe che su Venezia fosse più preparato, visto che ci ha ambientato Otello e Il mercante di Venezia. Ebbene, Shakespeare sa che a Venezia c’è il mare, come a Verona. Ma non si limita a questo, lui sa anche che c’è il Carnevale. E poi sa che c’è Cupido che va a scoccare le frecce (“Una specie di love boat del Rinascimento”).

Ma non è solo nei luoghi che si vede la venetità di Shakespeare: è soprattutto nella costruzione dei personaggi: basti pensare al vizio principale dei suoi protagonisti, che bevono in continuazione. Con un elogio al vino si conclude lo spettacolo di Pennacchi, accompagnato dalla chitarra di Gobbo, che scandisce le pause all’incalzare della voce, che sembra avere le energie per continuare per ore.

Anna Cortelazzo

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