SCIENZA E RICERCA

L’evoluzione punteggiata delle specie: Niles Eldredge a Padova

Nel 1972 due giovani paleontologi americani sfidarono la maggioranza dei loro colleghi evoluzionisti, sostenendo che le specie non evolvono necessariamente in modo lento e graduale, sfumando impercettibilmente l’una nell’altra come pensava il Charles Darwin cinquantenne dell’Origine delle specie (ma non quello dei Taccuini giovanili del 1837-1838), bensì attraverso lunghe fasi di apparente stabilità morfologica interrotte da brevi periodi di cambiamento repentino durante i quali si ramificano specie discendenti. La teoria venne battezzata “equilibri punteggiati” e suscitò un vespaio, perché metteva in discussione uno dei pilastri della cosiddetta “sintesi evoluzionistica moderna”, il grande programma di ricerca novecentesco che aveva unito la genetica mendeliana e la teoria darwiniana attraverso lo studio quantitativo delle frequenze delle varianti genetiche nelle popolazioni biologiche.

I due paleontologi newyorkesi furono persino accusati di fiancheggiare il creazionismo, con quella loro idea di un’evoluzione “per salti”, già sostenuta nei primi decenni del Novecento da alcuni genetisti di orientamento antidarwiniano. In realtà non si tratta di salti improvvisi e miracolosi, ma più semplicemente di un meccanismo di speciazione già noto, di tipo geografico, che fa sì che in alcuni contesti ecologici una barriera fisica o una migrazione separi una piccola popolazione di individui dalla specie madre. In questo “isolato periferico” si accumulano mutazioni divergenti, dovute a selezione naturale o a deriva genetica o ad altri processi, che incidono sul fenotipo e sui meccanismi riproduttivi: il risultato finale può essere che i membri di questo gruppo separato, dopo un lasso di tempo relativamente breve (su scala paleontologica!), non riescono più ad accoppiarsi con i loro cugini della specie madre. Una barriera geografica si è tradotta in una barriera riproduttiva. È nata una nuova specie, in un “attimo” del tempo geologico (alcune migliaia di anni, di solito), con cambiamenti morfologici che si concentrano nel momento di speciazione e non sono invece spalmati gradualmente lungo i milioni di anni di vita successiva di quella specie.

Ciò che la paleontologia aveva sempre notato, e cioè che le specie non si susseguono in modo inesorabilmente lento negli eoni del tempo profondo, trovava adesso una spiegazione diretta. La colpa non era della documentazione fossile imperfetta. C’era un meccanismo macroevolutivo reale alla base dell’alternanza di stasi, punteggiature e trend interspecifici. La paleontologia tornava così al centro del programma di ricerca evoluzionistico, in una visione che dava molta importanza ai fattori ecologici e geografici. Le specie stesse, che in una concezione gradualistica stretta mostravano confini sfrangiati e incerti, con gli equilibri punteggiati acquisivano una loro individualità discreta, erano soggetti importanti del gioco evolutivo e non più soltanto collezioni di esemplari morfologicamente simili. Si capì, inoltre, che era difficile ricondurre tutti i fenomeni evolutivi che avvengono su larga scala (estinzioni di massa, radiazioni adattative, speciazioni, turnover di specie, e così via) a processi microevolutivi di tipo esclusivamente genetico. Anche i fattori ecologici e macroevolutivi andavano considerati e i loro effetti non erano sempre estrapolabili dalla competizione genetica a livello individuale.

Insomma, fu un rilevante cambiamento teorico, un’estensione della teoria evoluzionistica, coerente con il suo nocciolo neodarwiniano. Oggi sappiamo che gli equilibri punteggiati sono un importante modello di speciazione, anche se non l’unico e non incompatibile con processi gradualistici classici. Uno di quei due giovani paleontologi newyorkesi si chiamava Stephen J. Gould, un prolifico e talentuoso scrittore di scienza che ci ha lasciato splendidi libri sulla storia naturale ed è purtroppo prematuramente scomparso nel maggio del 2002. L’altro è Niles Eldredge, curatore emerito della sezione di paleontologia degli invertebrati dell’American Museum of Natural History di New York, grande esperto di trilobiti, Eldredge è considerato uno dei massimi evoluzionisti viventi.

In tempi recenti Eldredge ha esteso la sua teoria delle specie come “individui” ecologicamente e geneticamente distinti a una visione generale dell’evoluzione come processo che si snoda a più livelli, dai geni agli organismi alle popolazioni, e ancor più su fino alle specie e agli ecosistemi. La sua idea è che per capire il cambiamento evolutivo sia necessario considerare un’interazione costante, a più livelli di organizzazione, fra trasmissione genetica e relazioni ecologiche.

Telmo Pievani

 

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