SOCIETÀ

La macchina dell’onestà?

Anche l’acqua, immobile, perde ossigeno, ristagna, puzza e perde la sua integrità. Si corrompe. Perché mai la politica e l’amministrazione dovrebbero sottrarsi alla legge ferrea dell’immobilità e dell’immobilismo?

La legge anticorruzione recentemente approvata dal Parlamento (n. 190/2012 - Disposizioni per la prevenzione e la repressione della corruzione e dell'illegalità nella pubblica amministrazione) favorisce quanto sarebbe necessario l’ossigenazione del sistema politico amministrativo? La legge 190 prevede che “… non siano temporaneamente candidabili a deputati o a senatori coloro che abbiano riportato condanne definitive a pene superiori a due anni di reclusione per i delitti previsti dall’articolo 51, commi 3-bis e 3-quater, del codice di procedura penale”. Il decreto attuativo approvato il 6 dicembre dal governo Monti non aggiunge nulla di nuovo e, associato al meccanismo elettorale delle liste bloccate che caratterizza la normativa vigente, si trasforma in una sanatoria quasi totale dell’attuale classe politica, confermando di fatto l’esistenza di difficoltà attualmente insormontabili all’autoriforma del sistema.

La gravità della norma sull’incandidabilità recentemente varata va ben oltre la misura degli effetti che essa potrà produrre sul processo di screening e sulla possibilità effettiva di ricambio della classe politica. Essa getta una luce sinistra anche sui processi di selezione di collaboratori, managers e dirigenti che decidono in sintonia con gli orientamenti generali definiti dalla politica e sono responsabili di scelte rilevanti per i bilanci pubblici e per l’immagine stessa delle istituzioni. Può una cattiva politica, affetta dal vizio di violare le leggi, con spiccata tendenza all’autoassoluzione e al conflitto d’interessi, garantire davanti ai cittadini la selezione di una classe dirigente pubblica di elevata qualità professionale e morale? 

Secondo i dati del SAeT (Servizio anticorruzione e Trasparenza), tra il 2004 e il 2010 i delitti prevalenti contro la pubblica amministrazione sono nell’ordine: truffa per il conseguimento di erogazioni pubbliche, indebita percezione di denaro pubblico e abuso d’ufficio. Dal 2007 l’abuso d’ufficio (punito con reclusione che va da sei mesi a tre anni) è in crescita e oggi è il reato più diffuso. Stiamo parlando di dirigenti che, trovandosi in conflitto d’interessi, decidono, ad esempio, di assumere un familiare o favorire, a discapito di altri, i propri interessi patrimoniali o personali nell’esercizio delle loro funzioni. L’abuso d’ufficio danneggia irrimediabilmente l’immagine delle amministrazioni pubbliche, ne erode la fiducia e la credibilità e ci fornisce una misura della diffusione di logiche predatorie ed egoistiche nel settore pubblico. 

Le norme anticorruzione, in linea con le direttive OCSE e le leggi dei paesi più avanzati, sono finalizzate a prevenire piuttosto che a reprimere i reati contro la pubblica amministrazione. Per questo introducono sia maggiore tutela per chi denuncia reati, sia strumenti nuovi, come il principio di “rotazione” per le cariche dirigenziali a più elevata esposizione a corruzione e illegalità e riaffermano l’importanza di vecchi strumenti come i controlli interni e il Codice di comportamento dei dipendenti pubblici, in vigore dal novembre 2001. Il Dipartimento della Funzione Pubblica e la nuova Autorità anticorruzione, la Civit (Commissione per la valutazione, la trasparenza e l'integrità delle amministrazioni pubbliche) saranno chiamati, rispettivamente, a coordinare le politiche in questo settore, a verificare l’attuazione dei “Piani triennali di prevenzione della corruzione” adottati dalle amministrazioni di ogni ordine e grado e a vigilare sull’individuazione dei “responsabili della prevenzione della corruzione”. 

Va da sé che le leggi sono scritte sulla carta e i comportamenti sono ben altra cosa. L’obbligo di trasparenza, il divieto di accettare regalie, la regolazione del conflitto d’interessi, il divieto d’incarichi esterni incompatibili con l’esercizio delle funzioni pubbliche non sono certo una novità nel nostro ordinamento, ma non hanno finora impedito la proliferazione dell’illecito e del malcostume. 

Il processo di riossigenazione del sistema, così come è stato predisposto, ha almeno due punti deboli. In primo luogo, il grande divario esistente tra regole d’integrità alle quali è assoggettata la classe politica - con le norme sull’incandidabilità, la mancata regolazione del finanziamento delle campagne elettorali e dei gruppi - e le regole di rigore e integrità valide per gli alti funzionari e le burocrazie pubbliche. Dentro le istituzioni e dentro il complesso e delicato sistema di relazioni tra politica e amministrazione continueranno a convivere due pesi e due misure. Inoltre, la ridondanza di “Piani” e “responsabili” dell’anticorruzione rischia di alimentare soprattutto un cumulo di adempimenti meramente burocratici, rispettati i quali poco cambia. Sarebbe forse più efficace e credibile intervenire sulla contrattazione pubblica collettiva, sui contratti di diritto privato e, soprattutto, adeguare i sistemi di valutazione della dirigenza e del personale. 

Rimane aperta, a monte di queste considerazioni, la domanda iniziale: ha ancora senso, in una democrazia moderna, votare e valutare le prestazioni pubbliche senza tener conto della dimensione etica? Il nervo è scoperto, come dimostrano le cronache giudiziarie e le convulse vicende parlamentari che hanno portato alla crisi e alle dimissioni del Governo Monti. Siamo in campagna elettorale, l’attenzione si è già spostata altrove e - forse non casualmente - il sipario anche mediatico sull’etica pubblica cala proprio mentre va in scena l’atto centrale. Spiace dover constatare che, mentre in altri paesi democratici l’informazione e il dibattito pubblico, pur con limiti e difetti, sono parte della soluzione, in Italia rappresentano ancora parte del problema. 

Maria Stella Righettini

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