SOCIETÀ

La palla è rotonda

Due economisti, Simon Kuper e Stefan Szimanski, nell’apprezzato saggio Soccernomics, hanno elaborato un modello statistico volto a misurare l’incidenza di diverse variabili sul risultato di una partita di calcio. Attraverso una serie di regressioni multiple, i due autori hanno messo in relazione differenza reti e fattore campo, esperienza internazionale dei giocatori e delle squadre e anche popolazione e Pil dei paesi delle nazionali analizzate. In Soccernomics si sostiene che il fattore campo valga un vantaggio di quasi un gol, avere due volte l’esperienza dell’avversario valga da sola mezzo gol, mentre avere la popolazione o il Pil doppio dell’avversario valga appena 0,1 gol. 

All’applicazione della statistica al calcio non poteva mancare Nate Silver, che nel suo sito di data journalism FiveThirtyEight ha preparato per l’occasione un Soccer Power Index che dovrebbe calcolare l’esatta probabilità di vittoria e di passaggio del turno di ciascuna nazionale. Si tratta di un modello statistico ricavato da un precedente esperimento condotto sul baseball e anche qui sono decine i fattori presi in esame: dai risultati delle ultime partite ai gol fatti e subiti, dal fattore campo alla distanza dei paesi di provenienza delle nazionali dal Brasile, fino al coefficiente di difficoltà del campionato in cui gioca ciascun giocatore. Dal modello di Silver arrivano cattive notizie per l’Italia, che avrebbe solo lo 0,5% di probabilità di vincere i mondiali – a fronte del 45% del Brasile e del 12% dell’Argentina – e che potrebbe avere difficoltà anche a passare il primo turno. Simili modelli statistici sono presenti sui portali di agenzie di scommesse e spesso stanno alla base del calcolo stesso delle quote delle scommesse sportive. 

L’incontro tra statistiche e calcio è visibile non solo fuori dal campo, ma anche nell’analisi e nella preparazione delle partite stesse. Grazie allo sviluppo delle tecnologie e dei metodi di ripresa televisiva è ora possibile calcolare quanto ha corso un giocatore, quanti passaggi ha sbagliato, l’esatto numero di dribbling riusciti e in quali zone del campo abbia maggiormente stazionato. A molti non è poi sfuggito come la percentuale di possesso palla sia ormai considerata una virtù e talvolta perfino un obiettivo: non mancano infatti gli allenatori che commentando una sconfitta si rallegrano di un dato di possesso palla superiore all’avversario. Le squadre di calcio più organizzate hanno inserito nei propri staff tecnici degli specialisti dei numeri, che attraverso l’utilizzo di appositi software forniscono all’allenatore periodiche relazioni sulla squadra, sui singoli giocatori e sugli avversari. Vi sono poi collaboratori dell’allenatore che muniti di tablet vanno a osservare le partite dal punto più alto dello stadio, in modo da avere una visione completa e registrabile dei movimenti dei singoli e di squadra, proprio come accade nel football americano. 

Questo crescente ricorso a numeri e statistiche rappresenta una sorta di “americanizzazione” del calcio, che sembra voler fare propria una delle storiche caratteristiche degli sport americani più popolari: l’amore per i numeri e per le classifiche. E questo vale per tecnici, giocatori e spettatori. Le cronache delle partite di baseball e football sono piene di dati statistici, mentre il basket NBA è un crogiuolo di numeri e di percentuali. Il risultato finale è quello di sport dove raramente capitano sorprese (i più forti quasi sempre vincono) e dove la specializzazione degli atleti è molto elevata. Negli anni Sessanta nessuno contava gli assist di Gianni Rivera, il numero di dribbling riusciti di Sandro Mazzola o i passaggi azzeccati da Giacomo Bulgarelli, ma negli stessi anni negli Stati Uniti si avevano già tutte le statistiche sul grande cestista Wilt Chamberlain. Sappiamo che gli americani amano fare classifiche di qualsiasi cosa ed è probabile che questa tendenza aiuti il calcio a diventare ancora più popolare negli Stati Uniti. Non è un caso che una delle prime emittenti a insistere sull’elaborazione numerica dei dati di una partita di calcio sia stata proprio l’americana Espn e che abbia poi trasferito questo modus operandi alla propria filiale britannica e di qui contagiato le altre emittenti sportive europee. 

Detto di questa tendenza, permangono due peculiarità che sono di forte ostacolo a una completa americanizzazione del calcio. La prima riguarda l’impossibilità di creare nel calcio la figura dello “specialista”, tipica degli sport americani e molto amata dagli spettatori. Il tiratore infallibile che fa il suo ingresso in campo solo per mettere una “bomba” da tre punti, il punter che nel football americano in determinate azioni deve solo calciare la palla il più lontano possibile e così via. Stante il limite di tre sostituzioni a partita, nel calcio non sono possibili figure simili. Immaginiamoci però un sensibile allargamento del numero di sostituzioni ammesse: Andrea Pirlo potrebbe giocare fino a 50 anni, entrando in campo per calciare punizioni dal limite dell’area di rigore ogni qual volta si presenti l’occasione. In situazioni da corner, l’allenatore della squadra in attacco potrebbe far entrare in campo specialisti dei colpi di testa e il tecnico avversario rispondere di conseguenza coi suoi migliori colpitori presenti in panchina. Si dirà che aumenteranno le perdite di tempo e il gioco si farebbe più spezzettato. Ma così sono gran parte degli sport americani: continue entrate e uscite dal campo, time-out, tempi tecnici e strategie contro strategie elaborate dagli allenatori e dai loro nutriti staff. 

Il secondo ostacolo concerne il conservatorismo dei dirigenti calcistici che impedisce ogni ricorso alla tecnologia. Ormai in quasi tutti gli altri sport è previsto il ricorso all’instant replay, all’occhio di falco e a tutte quelle specie di moviole in campo che permettono al giudice di gara di rivedere – spontaneamente o su richiesta - le immagini di un’azione di gioco e cambiare una propria decisione. Il calcio si ostina a rifiutare ogni forma di aiuto tecnologico, lasciando quindi all’arbitro ogni potere, al massimo affiancandogli un maggior numero di collaboratori che talvolta servono solo a confonderlo ulteriormente. Questo dogma è la causa di molti errori umani, ragione di infinite polemiche ma anche causa di una certa imprevedibilità, ormai assente in quegli sport che hanno convintamente scelto la strada della riduzione degli errori e della maggior trasparenza possibile. La fallibilità del giudice unico di gara – che però spesso favorisce le squadre più “potenti” – rappresenta un nemico dei modelli predittivi e anche un ostacolo alla completa affermazione del calcio negli Stati Uniti. Questo perché molti degli sportivi statunitensi vedono nello sport la realizzazione di un sistema ideale di giustizia sociale, dove il lavoro è valorizzato, i migliori premiati e i bari squalificati.

Marco Morini

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