SOCIETÀ

L'agonia di Detroit investe il federalismo Usa

Data l’enormità dei problemi che affliggono oggi Detroit - metropoli che fu prosperosa ma che, sepolta sotto una montagna di debiti da quasi 20 miliardi di dollari, ha recentemente dichiarato bancarotta - sorprende la totale assenza di un dibattito serio sul ruolo che il governo federale americano potrebbe giocare nell’eventuale salvataggio della città.

Del resto, come per altro avvenne nel 2009 quando Washington andò in soccorso delle tre grandi dell'industria automobilistica (General Motors, Chrysler e Ford) che proprio a Detroit hanno casa, il Congresso avrebbe l’autorità di formulare un piano di risanamento delle finanze municipali. Ma questa è una decisione politica che richiede l'accordo di democratici e repubblicani, occorrenza più unica che rara, e che rappresenterebbe un impegno economico che nessuno si vuole prendere. “Ci sono altre città negli Stati Uniti che hanno dichiarato bancarotta e che hanno problemi finanziari loro, quindi il governo federale deve decidere se aiutare tutti – spiega Douglas Bernstein, un avvocato che si occupa di bancarotte anche municipali presso lo studio Plunkett Cooney di Bloomfield Hills in Michigan – ma non sono sicuro che il Paese se lo possa permettere o che il Congresso sia disposto a dare la propria autorizzazione”.

D'altro canto, le autorità statali del Michigan - alla cui guida sta il governatore repubblicano Rick Snyder - e quelle locali di Detroit - capeggiate dal sindaco democratico Dave Bing e, ora, dal Commissario Kevyn Orr – pare abbiano tutte le intenzioni di mantenere la propria indipendenza. “I politici dello stato e della città non vogliono l’intervento del governo federale, ma preferiscono affrontare da soli la questione – dice David Draine, un ricercatore presso il Pew Center for States di Washington – giacché si tratta di un problema assolutamente risolvibile”.

Eppure le condizioni in cui versano le finanze di tante città americane in crisi sono davvero gravi. I fondi pensione dei dipendenti pubblici di Detroit, ad esempio, sono in rosso per tre miliardi e mezzo di dollari, a cui vanno sommati altri sei miliardi di dollari dovuti dal comune agli stessi pensionati sotto forma di assicurazione sanitaria. E va ancora peggio a città come Chicago e Philadelphia, che nel 2009 potevano contare rispettivamente solo sul 52% e 62% dei soldi necessari a finanziare l’erogazione delle pensioni. Un’analisi effettuata dal Center for Retirement Research del Boston College evidenzia che, a livello nazionale, i fondi pensione municipali sono coperti in media al 73%, e solo al 52% se si usano stime più pessimistiche, ma che molti esperti giudicano oggi più realistiche.

Come si sente spesso ripetere, queste difficoltà sono dovute a decenni di gestioni incapaci e corrotte e alla pratica diffusa del voto di scambio. Ma non bisogna dimenticare la recessione degli ultimi anni, che in un attimo ha spazzato via ricchezza in una misura inimmaginabile. “Prima della crisi, Detroit aveva un sistema pensionistico ben finanziato, per circa il 93% - spiega Draine del Pew Center for States - Ma è bastata la recessione a farlo deragliare, giacché si è andata a sommare a tutti i mille altri problemi della città”.

Ed è in questa prospettiva in particolare che l’incapacità degli americani di immaginare il consolidamento a livello federale di alcuni beni e servizi pubblici coglie di sorpresa l’osservatore d’oltreoceano. Dopo tutto, i vantaggi di pensioni e sanità nazionali sembrano a noi evidenti.

Un sistema cui contribuisce un numero maggiore di persone, sparso su un territorio più vasto e quindi soggetto a cicli economici diversi, è almeno in teoria meglio equipaggiato a rispondere all'improvvisa crisi di una delle sue componenti. A patto però che chi sta meglio sia disposto a intervenire a favore di chi sta peggio e quindi a ridistribuire parte della propria ricchezza, almeno temporaneamente. Ingrediente questo che non è indigesto solo agli americani: basti pensare alla riluttanza mostrata dai cittadini dell’Europa settentrionale nel momento in cui sono stati chiamati a aiutare i colleghi della “periferia”.

Negli Stati Uniti c'è anche un'ulteriore motivazione che spinge verso un maggior interventismo da parte di Washington, legata alla distribuzione di competenze fra governo federale e singoli stati. “Il governo federale è il solo che può legalmente stampare moneta e perseguire una politica di deficit di bilancio per finanziare servizi come le pensioni – spiega John Kincaid, esperto di federalismo in America e direttore del Meyner Center for the Study of State and Local Government presso Lafayette College in Pennsylvania – i governi statali e municipali possono prendere a prestito dal mercato dei buoni del Tesoro locali solo per finanziare gli investimenti di capitale, come le infrastrutture, ma non le operazioni quotidiane”.

Non a caso, gli Stati Uniti attraversano oggi una fase di maggior accentramento di responsabilità nelle mani di Washington. A Detroit, ad esempio, si sta considerando l’ipotesi di riversare i pensionati del comune sul sistema sanitario nazionale che già esiste per gli ultra sessantacinquenni, ovvero Medicare. Pare infatti costi meno alle municipalità pagare le tasse federali di Medicare per conto dei propri pensionati che offrire una copertura sanitaria indipendente. Allo stesso tempo, sempre più nuovi assunti dalle amministrazioni pubbliche locali sono ridiretti verso il sistema pensionistico nazionale di Social Security.

Nonostante questi sviluppi, a livello di consenso politico le argomentazioni in favore di una espansione del governo federale non hanno gran presa con gli americani, per due ragioni in particolare. “Dal punto di vista della nostra tradizione politica, l’accento è messo sulla libertà di autogovernarsi, sul fatto che ogni comunità debba essere indipendente e allo stesso tempo responsabile delle proprie azioni – dice il Professor Kincaid – Inoltre la decentralizzazione garantisce grande diversità e maggiori possibilità di sperimentare con modelli differenti di governo”. Osservazione quanto mai centrata: non c’è dubbio che, data la stasi legislativa che affligge Washington ormai da anni, è importante che anche a dispetto della crisi di certe municipalità gli Stati Uniti riscoprano il potenziale delle proprie città come centri di innovazione e motore economico e politico di tutto il Paese.

Valentina Pasquali

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