UNIVERSITÀ E SCUOLA

L'atlante della precarietà

“Ci hanno convocati nell’ex mattatoio, dove ora c’è il dipartimento di design e architettura dell'Università Roma Tre, per parlare di lavoro?” “Si, e credo che la scelta non sia stata casuale”. Ironia e disincanto si mescolano a determinazione e orgoglio per il proprio lavoro, ed è in fondo prevedibile, all'apertura di un convegno centrato sulla precarietà, e i cui partecipanti sono nella gran parte proprio precari appunto. “Jobs map: usciamo dalla precarietà!”: mercoledì 9 luglio, a Roma, circa 200 persone provenienti da tutta Italia, si sono incontrate  per "mappare" le condizioni di lavoro di chi opera nella ricerca, nella formazione, nella cultura - nel mondo della conoscenza, per usare un termine unico - e individuare percorsi possibili per uscire da una crisi che, a giudizio unanime, ha sempre meno di individuale e sempre più di collettivo. 

Alla base di questa giornata una ricerca appena conclusa che inizialmente gli autori prevedevano di presentare a Torino, per l'11 luglio, come occasione di confronto sulla disoccupazione giovanile in parallelo con l'incontro dei ministri degli esteri europei, che sotto la Mole Antonelliana avrebbero dovuto occuparsi in questi giorni di politiche del lavoro. L'incontro internazionale di Torino è stato poi annullato, ma il problema della disoccupazione giovanile resta; ed è essenziale, in un confronto spesso confuso e giocato sui luoghi comuni, la necessità di basare su precisi dati qualitativi e quantitativi ogni dibattito sulle riforme del lavoro e del sistema scolastico, della ricerca e dell’università. 

Il quadro che emerge dai dati non è confortante. Non a caso Anna Fedeli introducendo i lavori della mattinata si chiede, provocatoriamente, “Chi ha interesse a rendere strutturale la precarietà?" Come opporsi ad una flessibilità che viene utilizzata come scusa per negare i diritti, quando nel dibattito politico non si parla più di investimenti, e soprattutto di quelli che andrebbero fatti urgentemente sul capitale umano? "Stiamo vivendo una lunga stagione di dematerializzazione dei diritti”, nota amaramente Fedeli. Questo, in sintesi, il quadro, che emerge, sintetizzato in una infografica, da Ricercarsi. Indagine sui percorsi di vita e lavoro del precariato universitario”, la complessa indagine condotta da un gruppo di giovani ricercatori, Francesco Vitucci, Emanuele Toscano, Orazio Giancola e Francesca Coin e finanziato dalla FLC-CGIL, la costola del sindacato che si occupa dei "lavoratori della conoscenza".

I dati: negli atenei italiani il 50% del personale che si occupa di ricerca è costituito da precari che hanno, secondo le normative vigenti, scarse probabilità di essere stabilizzati nelle strutture in cui collaborano da anni. L’esercito dei precari della conoscenza secondo i dati forniti dal Ministero tra il 2002 e il 2013 ammonta a circa 60.000 persone sul territorio nazionale che collaborano alla ricerca con le forme contrattuali più diverse: assegni di ricerca, borse di studio, co.co.co., co.co.pro. e anche volontariamente e gratuitamente tra un contratto e l’altro, come “cultori della materia”. Tra il 2002 e il 2013, solo il 6,7% di questo bacino di lavoratori precari ha ottenuto una qualche forma di stabilizzazione. Soprattutto, dalle proiezioni emerge che questa percentuale è destinata a ridursi ulteriormente nei prossimi due anni fino a rasentare lo zero per effetto del blocco del turn-over e del tetto a un massimo di quattro anni per il rinnovo dell’assegno di ricerca imposto dalla legge Gelmini (i primi espulsi dal sistema si avranno nel 2015 e paradossalmente saranno proprio coloro che collaborano con gli atenei in modo stabile  e prolungato nel tempo anche se frammentato in mille contratti). 

La ricerca era suddivisa in tre fasi, per integrare elementi quantitativi e qualitativi: un questionario online che è stato compilato da 1.861 partecipanti tra precari e ricercatori strutturati, l'analisi dei dati forniti dal Miur sulla popolazione dei precari dal 2002-2012 e 40 interviste approfondite a precari della ricerca. In questa prima presentazione dei risultati al pubblico e alla stampa sono stati resi noti sono i dati provenienti dal Miur e dal questionario. Francesco Vitucci, presentando i numeri forniti dal ministero, sottolinea quanto sia stato complicato riuscire ad ottenere queste informazioni in un formato utile all’analisi. È stato necessario l’intervento del sindacato e del segretario nazionale della FLC-CGIL per ottenere una risposta alla richiesta di informazioni sulla composizione della popolazione accademica italiana, e i dati sono stati forniti in pdf, un formato dal quale risulta difficile estrarre le informazioni. In particolare, non sono stati forniti degli identificativi unici del personale, come il codice fiscale, quindi tutta la pulizia del data set (per eliminare le omonimie per esempio) necessaria alla ricostruzione della carriera è stata svolta manualmente dal team di ricerca. 

La "fotografia" fornita dai dati del ministero mostra come nel mondo accademico gli strutturati (professori ordinari e associati e ricercatori a tempo indeterminato) costituiscano il 50% del personale; i dottorandi, che in questo caso vengono inseriti nel contingente di ricerca, sono il 33%, gli assegnisti di ricerca il 15% e i ricercatori a tempo determinato il 2%. I ricercatori a tempo indeterminato sono presenti in percentuali maggiori nelle università private poiché possono essere impiegati nella didattica, la principale attività di questi istituti. I tagli ministeriali e il blocco del turn-over sono stati superati nelle università italiane con un utilizzo delle forme contrattuali a termine.

Il questionario: hanno risposto all’invito a raccontare la propria situazione soprattutto le donne, che costruiscono il 57% dei partecipanti. Il 52,5% del campione si dichiara convivente o sposato.  L'età media è di 35 anni e il 73,1% non ha figli. La maggior parte delle persone che ha accolto l’invito a partecipare all’indagine fa ricerca nella macroarea scientifica e il 60% ha esperienza all'estero, ma la maggior parte ha conseguito il titolo di dottore di ricerca nello stesso ateneo in cui si è laureato. Il numero medio di contratti di ricerca avuti in dieci anni è di 6,2, ma si segnala una coda del 10,4% dei rispondenti che ha avuto in dieci anni da 13 a 30 contratti. Per quanto riguarda le disuguaglianze sociali è statisticamente significativa l’occupazione del padre per sperare di continuare o meno a lavorare all'università. Per un partecipante su tre che ha lasciato dopo anni di precariato il mondo dell’università pare che le competenze professionali acquisite nel percorso di studio non vengano sfruttate nella nuova occupazione anche quando si resta a lavorare nel settore della conoscenza ad alta specializzazione. Spesso, poi, si lavora per l'università senza alcun riconoscimento economico o di ruolo: diversi partecipanti riportano esperienze di docenza senza titolarità o di essersi occupati di tesi di laurea per conto di altri docenti.

Infine, la qualità della ricerca: per la maggior parte dei ricercatori che hanno risposto al questionario, ben l’84,3%, le condizioni di lavoro incidono sulla qualità della ricerca svolta; le maggiori difficoltà sono individuate nella mancanza di continuità nei contratti e nella difficolta di rappresentanza negli organi collegiali e decisionali. 

Come immaginano i ricercatori italiani il proprio futuro? Nonostante, significativamente, le due parole chiave scelte per descrivere il lavoro di ricerca siano “stimolante” e “interessante”, la maggior parte dei ricercatori precari si dichiara senza prospettiva. Molti ritengono probabile dover lasciare l'Italia, soprattutto le donne che, anche in questo settore, guadagnano molto meno degli uomini e sono costrette ad avere un secondo lavoro o un’integrazione del reddito dal sostegno della famiglia d'origine. Un dato che forse aiuta a spiegare come mai ci siano moltissime donne in età fertile e in coppia che dichiarano di non avere figli. Un sistema che, anche nella fotografia parziale che ne restituisce questa ricerca nella sua prima fase di elaborazione, non appare sostenibile a lungo: una società che non investe nella ricerca e nei giovani talenti che futuro lascia nelle mani delle nuove generazioni?

Valentina Bazzarin

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