SOCIETÀ

La trasformazione del lavoro. Precariato e flessibilità: l’evoluzione del mercato del lavoro in Italia

Secondo i dati rilasciati periodicamente dall’Osservatorio sul Precariato dell’INPS, negli ultimi trent’anni il lavoro “atipico” – cioè tutte le forme contrattuali diverse dal lavoro subordinato a tempo indeterminato – è aumentato in modo costante e sostenuto sia in Italia, sia nel resto d’Europa. Come evidenzia il “Rapporto sul futuro del lavoro”, documento pubblicato nel 2019 dall’Istituto nazionale per l’analisi delle politiche pubbliche (INAPP), per la maggior parte delle nuove assunzioni effettuate nel periodo 2017-2018 è stato adottato un contratto a tempo determinato – che è la forma più diffusa tra i vari contratti di lavoro atipico. È interessante evidenziare come, tra questi, solo un lavoratore su cinque riesca a stabilizzare la propria posizione entro un anno dall’inizio del contratto.

I dati più recenti si confermano coerenti con questa tendenza: stando a quanto riportato dall’ultimo rapporto annuale dell’INAPP, pubblicato nel 2022, “quasi il 69% dei nuovi contratti è a tempo determinato”, e “quasi il 15% a tempo indeterminato”, il che dimostra “la prevalenza delle forme atipiche dei contratti nel nostro mercato del lavoro”.

Inoltre, “il mercato del lavoro italiano continua […] ad essere caratterizzato da elementi strutturali che allontanano l’Italia dagli standard europei, quali bassa crescita della produttività del lavoro, riduzione dei salari e aumento del ricorso a forme di lavoro non standard (legato principalmente alla crescita dei contratti a termine) con forti eterogeneità a livello settoriale, territoriale e per alcuni segmenti della popolazione”. Insomma, i dati raccolti dall’INPS e le analisi dell’INAPP restituiscono un’immagine del mercato del lavoro nel nostro Paese segnata dall’incertezza, con ogni probabilità acuita da una ormai consolidata tendenza alla precarizzazione.

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Ascolta l'intervista a Devi Sacchetto

Come spiega Devi Sacchetto, docente di sociologia del lavoro all’università di Padova, ai microfoni del Bo Live, l’aumento della precarietà nel mondo lavorativo italiano ha delle ragioni che possono essere rintracciate nella nostra storia politica recente: «È un dato di fatto che i governi succedutisi in questi decenni, a prescindere dall’orientamento politico, abbiano provato a modificare le regole dell’acquisto e della vendita della forza lavoro: questo ha ampliato il bacino della precarietà. Tali scelte sono state compiute con l’intenzione di incentivare l’occupazione, o quella che oggi viene chiamata occupabilità, che consiste nel rendere più persone possibile “appetibili” per il mercato del lavoro. Non bisogna dimenticare che questa tendenza alla precarizzazione era già visibile negli anni ’80 e si consolidò poi soprattutto negli anni ’90: è a partire da quel momento, infatti, che i diversi governi agevolarono questa espansione del lavoro a termine».

«Ma un elemento altrettanto fondamentale – prosegue Sacchetto – è stata la trasformazione produttiva: i lavori a tempo determinato si sono progressivamente diffusi al di là dei settori storicamente stagionali, come il turismo, e anche le imprese manifatturiere hanno cominciato a produrre in modo sempre più stagionale, attuando quella che definiamo produzione “just in time”, che consiste nell’avviare determinate linee produttive solo quando c’è richiesta per quel tipo di prodotto».

Una trasformazione così profonda del mercato del lavoro ha conseguenze non solo di tipo ‘macroscopico’ – in quanto modifica la struttura produttiva e, in una certa misura, anche il tessuto sociale del Paese – ma anche a livello ‘microscopico’, con effetti evidenti anche per le vite di individui e famiglie. Come afferma il sociologo, infatti «le conseguenze di una precarietà prolungata nel tempo pesano senz’altro sugli individui. A determinare l’entità dell’impatto che l’accesso a forme di lavoro precario ha sulle storie personali sono una serie di caratteristiche individuali: la famiglia di origine, la disponibilità economica a sostenere percorsi lavorativi molto frammentati, e altre variabili come le competenze, le conoscenze, la possibilità di reperire altri lavori».

Come rileva Sacchetto, inoltre, la persistenza di questo modello di organizzazione del mercato del lavoro influisce sul modo in cui le nuove generazioni si affacciano alla vita adulta. «Vi è un elemento da tenere a mente, molto importante ma spesso sottovalutato: mentre negli anni ’90 e nei primi anni 2000 il precariato era vissuto soprattutto con timore, oggi almeno una parte dei giovani sembra riuscire a navigare questa condizione di precariato, provando a sviluppare delle forme autonome di percorsi lavorativi».

Pur in una situazione di oggettiva instabilità e difficoltà, dunque, i lavoratori più giovani sembrano aver imparato a sfruttare questa condizione a proprio favore, muovendosi tra un’occupazione e l’altra con l’obiettivo di accumulare esperienze e opportunità. Prendere atto di questo approccio permette di abbandonare la narrazione che vede il precario solamente come una “vittima”. Se, da una parte, questa attitudine può essere considerata positiva, dall’altra – sottolinea il professore – essa nasconde almeno un lato negativo: nutrire un approccio esclusivamente individualista – caratterizzato dalla necessità di “farcela da soli” – può portare ad una progressiva atrofizzazione del senso di comunità, condizione che, nel lungo periodo, può rivelarsi problematica anche dal punto di vista sociale.

Sebbene la precarietà lavorativa possa anche aprire opportunità, questa dimensione parzialmente positiva viene senz’altro meno quando l’instabilità si prolunga nel tempo, e rimane l’unica opzione disponibile anche a 35-40 anni: «A quel punto, la precarietà viene percepita come un problema, e tale condizione incide molto di più anche sulla propria identità lavorativa», precisa Sacchetto.

È qui che si manifestano nel modo più palese le diseguaglianze tra diverse categorie sociali: perché la probabilità di abbandonare il precariato aumenti, infatti, le condizioni di origine e di contorno svolgono un ruolo fondamentale. «La precarietà – afferma il docente – non è legata solo a un contratto di lavoro: occorre guardare, ad esempio, alla disponibilità familiare dal punto di vista economico, al genere nel quale ci si identifica, al luogo nel quale si abita (essere precari in Veneto o esserlo in Calabria garantisce opportunità di cambiamento decisamente ineguali), e anche al possesso della cittadinanza. In Italia è abbastanza evidente che le donne migranti, magari di colore, sono ben più precarie di altre categorie di lavoratori, e percepiscono molto di più il peso di questa condizione di instabilità. Quando si parla di precarietà, dunque, bisogna ricordare che ci si riferisce a un fenomeno estremamente differenziato».

Per modificare – e possibilmente migliorare – la propria posizione lavorativa, la buona volontà e l’impegno non sono (quasi mai) sufficienti: la provenienza, il genere, il colore della pelle sono, purtroppo, ancora oggi buoni predittori del tipo di contratto al quale si avrà accesso più facilmente. Perché questa situazione si evolva, politiche pubbliche mirate sono essenziali.


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