SOCIETÀ

Laurea e lavoro: la Federal Reserve rifà i conti

Negli ultimi 30 anni, il progressivo indebolimento dei sindacati e il rapido avanzare della globalizzazione, che rende i capitali estremamente mobili e i posti di lavoro, facilmente trasportabili laddove la manodopera costa poco, hanno significato grossi guai per la classe dei "colletti blu", ovvero i lavoratori manuali secondo la tradizionale denominazione Usa. Questo processo, culminato nella crisi iniziata nel 2008, ha messo in forte evidenza come, negli Stati Uniti almeno, una laurea possa fare tutta la differenza per le sorti di individui e famiglie. È quello che si chiama, in inglese, il “premio” di una formazione universitaria, che generalmente garantisce a chi la completa prospettive di impiego e stipendi decisamente superiori rispetto a chi si ferma al diploma di scuola superiore. Di recente, però, la Federal Reserve Bank of New York ha interrogato i dati relativi a questo ipotetico “premio” e ha trovato che, se tale ragionamento tiene nella maggioranza dei casi, esiste però una classe di laureati che dai quattro anni passati al college non trae alcun beneficio economico.

“Non tutte le persone che ottengono un’istruzione universitaria entrano a far parte della classe media – dice Jeff Strohl, direttore per la ricerca presso il Center on Education and the Workforce di Georgetown University a Washington DC – Avere una laurea fa aumentare le possibilità che un individuo sia in grado di guadagnare uno stipendio da classe media, ma non lo garantisce”.

Secondo il Bureau of Labor Statistics, nel 2013 il tasso di disoccupazione tra gli americani con una laurea era del 4%, nettamente inferiore alla media nazionale del 6,1%. Un tasso che però saliva al 7,5% tra chi aveva solo un diploma e addirittura all’11% tra chi non aveva finito le superiori. Lo stesso fenomeno si riflette anche negli stipendi guadagnati. Sempre nel 2013, la paga mediana dei laureati era di 1.108 dollari alla settimana, mentre per i titolari di un diploma scendeva a 651 dollari e per chi aveva solo un titolo di scuola media a 472 dollari. È stato calcolato che, nel corso di una carriera e al netto dei costi sostenuti per frequentare l’università, i laureati guadagnano 500.000 dollari in più dei non-laureati.

D’acchito, questi numeri lasciano pochi dubbi sul fatto che una laurea sia un ottimo, forse irrinunciabile, investimento. Si tratta però di un’analisi che guarda alla media, non all’effetto reale che un titolo di studio ha sui singoli individui. I quali ne sono influenzati in maniera molto differente a seconda delle circostanze. Jaison R. Abel e Richard Deitz della New York Fed hanno infatti calcolato che un quarto di tutti i laureati, il 25% di essi che guadagna di meno, ha redditi che sono pari, se non inferiori, a quelli delle controparti con solo un diploma. Una scoperta sconcertante se si considera che costoro, così come tutti quelli che vanno al college, hanno dovuto sborsare tasse di iscrizione in continuo aumento, finendo spesso indebitati fino al collo prima ancora di ottenere un impiego.

“Innanzitutto mi pare importante notare che questo pare essere un fenomeno constante nel lungo periodo, strutturale e non causato dalla recessione – dice Strohl – Penso che alle sue radici siano un misto di scelte professionali, talento individuale e frizioni tipiche del mercato del lavoro americano”.

È senz’altro vero che il tipo di corso di studi frequentato e, poi, l’ambito occupazionale prescelto hanno un effetto importante sia sulla paga dei laureati sia sulle opportunità lavorative a loro disposizione. Un rapporto prodotto nel 2013 proprio dal Center on Education and the Workforce di Georgetown University dimostrava, nei fatti, quello che già si sa in teoria, ovvero che gli ingegneri, ad esempio, hanno salari maggiori e tassi di disoccupazione inferiori agli antropologi. “Negli Stati Uniti, le professioni a sfondo intellettuale e sociale – spiega Strohl –ad esempio gli insegnanti o gli assistenti sociali, nonostante richiedano un titolo di studio universitario pagano relativamente poco.”

Inoltre, in un sistema universitario relativamente aperto come quello americano, in cui non vi sono veri esami di ammissione e in cui tutti coloro che lo desiderano possono, almeno in teoria, frequentare un qualche college, esiste al completamento di quattro anni di studi una grande varietà in termini di conoscenze e preparazione. “Non tutti i giovani che vanno all’università posseggono le stesse abilità – dice Strohl – Inoltre essi ricevono un’istruzione di qualità molto diversa a seconda degli atenei cui si iscrivono”. In due studi concatenati, Academically Adrift e Aspiring Adults Adrift, i sociologi Richard Arum e Josipa Roksa, rispettivamente della New York University e della University of Virginia, sostengono che tanti giovani americani imparano poco e niente durante gli anni dell’università, non necessariamente perché non abbiano voglia di studiare, ma perché le istituzioni che frequentano domandano loro troppo poco impegno. Non solo: una volta laureati, questi stessi ragazzi fanno particolarmente fatica e trovare e a preservare un posto di lavoro.

Infine, secondo Strohl non va dimenticato che i lavoratori fanno, per ragioni personali, continui aggiustamenti ai propri percorsi professionali che influenzano il mercato del lavoro. Si pensi ad esempio a un laureato che deve seguire il coniuge che si trasferisce dall’altra parte del Paese e, almeno per qualche tempo, finisce per lavorare da Starbucks, facendo scendere decisamente, anche se solo temporaneamente, il proprio potenziale di reddito.

Cosa fare dunque con questo 25% di lavoratori per cui una laurea costa tanti soldi ma non genera un vantaggio apprezzabile, al netto di un fattore che sembra difficilmente modificabile nel breve periodo, ovvero le basse remunerazioni per professioni importanti e che richiedono una preparazione universitaria, come quelle sociali e della formazione, ma che ricadono all'esterno delle logiche di mercato? Di proposte in merito se ne trovano oggi delle più svariate, dalla creazione di un vero e proprio sistema, alla tedesca, di istruzione superiore tecnica e apprendistato, al potenziamento del network esistente di community college, istituti piccoli e locali che offrono corsi di studio biennali a prezzi molto inferiori a quelli delle università vere e proprie, dove poi uno studente può trasferirsi per completare gli ultimi due anni di una laurea quadriennale.

Per Strohl queste sono tutte ipotesi valide, ma nessuna da sola rappresenta la soluzione definitiva al problema. Ad esempio perché, per quanto efficace, il modello tedesco non può essere importato cosi com’è negli Stati Uniti, dove le relazioni industriali e il ruolo dei sindacati sono oggi molto diversi che in Germania. E ancora perché, in un Paese con una lunga storia di discriminazione razziale ed economica, creare due sistemi paralleli di istruzione terziaria può essere rischioso, giacché le minoranze e i meno abbienti finirebbero per essere dirottati automaticamente verso i college a buon mercato e i bianchi ricchi verso le università prestigiose, perpetuando all’infinito la disuguaglianza tra essi.

Bisogna quindi concentrarsi, più che sul prezzo, sulla qualità dell’istruzione universitaria, perché “se una laurea non serve a nulla, poco importa se costa poco”, dice Strohl. E bisogna impiegare in maniera più efficiente la grande quantità di informazioni a nostra disposizione. “È importante aiutare i giovani a prendere decisioni informate che permettano loro di allineare obiettivi professionali a talenti personali”, conclude Strohl. Ad esempio spiegando loro che certi tipi di corsi di studio, in particolare nel campo umanistico, richiedono ormai non più solo una laurea, ma anche un master o un dottorato.

Valentina Pasquali

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