SOCIETÀ

Le tasche troppo vuote di chi serve in tavola

Si dice negli Stati Uniti che i camerieri tremino ogni volta che vedono un gruppo di europei sedersi al tavolo, segnale inequivocabile che quella sera guadagneranno inevitabilmente meno del solito. I turisti provenienti dal Vecchio mondo sono infatti ben noti per le mance striminzite che lasciano a fine cena, mentre gli avventori locali, in particolare nelle grandi città come Washington e New York, sono ormai rassegnati ad arrotondare il conto di almeno il 20%. Le ragioni di tale consuetudine non vanno ricercate nella singolare generosità dei consumatori americani. Piuttosto stanno nel fatto, di cui gli europei sono per la maggior parte ignari, che per i camerieri di questo Paese, e per tutti gli altri “tipped workers” (i lavoratori che, secondo la definizione del dipartimento del Lavoro, ricevono almeno 30 dollari al mese in mance) gli "extra" lasciati dai clienti rappresentano spesso quasi la totalità del reddito, giacché non esiste alcun obbligo da parte dei datori di lavoro di garantire loro uno stipendio vero e proprio. 

Le difficili condizioni economiche che si trovano ad affrontare questi lavoratori riflettono il panorama in generale sconsolante della ristorazione negli Stati Uniti, dove anche i colleghi impiegati nel settore del fast-food, che percepiscono sì una busta paga, ma raramente superiore al salario minimo federale di 7,25 dollari l’ora, faticano ad arrivare alla fine del mese. “Nonostante alcune delle problematiche specifiche che riguardano i lavoratori di fast-food e i lavoratori ‘a mancia’ siano diverse, questi due gruppi hanno una cosa in comune: una retribuzione terribilmente bassa”, dice David Cooper, analista presso l’Economic Policy Institute di Washington, un centro di ricerca di tendenze progressiste. Oltre al livello salariale del tutto insufficiente a vivere, entrambe queste categorie soffrono anche di orari lavorativi estremamente imprevedibili, che fanno variare spesso di molto il loro reddito settimanale e rendono quasi impossibile gestire efficacemente le finanze familiari.

Purtroppo per i “tipped workers”, è questa la realtà nella quasi totalità degli stati dell’Unione, dove le norme federali sono attuate direttamente o con modifiche solo marginali. In tutti questi stati i proprietari di esercizi commerciali come i ristoranti ma anche i bar, gli alberghi, i garage con gli addetti al parcheggio delle macchine sono tenuti per legge a pagare i membri del proprio personale che ricevono mance solo 2,13 dollari all’ora o poco più, una versione, in vigore ormai dal 1991, ancora più misera del salario orario minimo federale. Le mance quindi sono considerate parte integrante del reddito di questi lavoratori, una componente che dovrebbe permettere loro di arrivare almeno alla soglia dei 7,25 dollari l’ora. In realtà, dice Cooper, questo capita di rado. 

Anche se i consumatori americani sono coscienti di dover aggiungere una cifra sostanziale al conto, non è detto che lo facciano tutti e in maniera sufficiente. Di conseguenza, si calcola che il 40% di questi lavoratori viva in semi-povertà. “Il tasso di povertà tra i lavoratori a mancia è il doppio che tra gli altri – dice Cooper - e queste persone si appoggiano a programmi di assistenza sociale in percentuali di molto superiori alla media”. Questo naturalmente significa anche che essi rappresentano un peso per i contribuenti. 

Purtroppo per i lavoratori a mancia, il dibattito in corso oggi sull’aumento del salario orario minimo standard non ha un grande valore per loro, giacché non hanno i requisiti per riceverlo. Bisognerebbe invece eliminare la cornice legale che permette ai datori di lavoro di pagarli ancora meno lasciando il loro reddito nelle mani dei clienti e della loro buona volontà.  

Sette stati, concentrati soprattutto nell’ovest americano (Alaska, Washington, Oregon, California, Nevada, Montana e Minnesota) si sono mossi in questo senso, e oggi impongono il salario orario minimo standard per tutti i lavoratori, che essi ricevano mance o meno. “In questi stati – dice Cooper – il tasso di povertà tra i lavoratori a mancia è inferiore che nel resto del Paese, e al contempo l’industria locale della ristorazione continua a prosperare”. 

Esiste poi un’avanguardia di ristoranti, per lo più costosi e alla moda, ma anche attivi nelle proprie comunità, che sta andando oltre: assume i propri camerieri a tempo pieno, paga loro non solo uno stipendio mensile fisso ma anche l’assicurazione sanitaria, i contributi pensione e le ferie, e vieta del tutto la pratica della mancia. 

“Non si tratta ancora di una vera ondata, ma è comunque un numero in crescita – dice Cooper – E più aumentano gli esercizi che adottano questo modello, più questo è destinato a diffondersi, giacché in molti casi si rivela vantaggioso per i datori di lavoro stessi.” Per quanto costino poco, infatti, i dipendenti che guadagnano il salario orario minimo standard o quello ancora inferiore dei lavoratori a mancia presentano una serie di problemi per gli esercizi che li impiegano, come discusso in questo studio del 2013 di ricercatori della University of California a Berkeley sui vantaggi di salari più alti. Data la precarietà delle loro condizioni di vita essi sono continuamente in cerca di altre opportunità, e quindi i settori che li impiegano soffrono di un perenne ricambio di personale. “Esistono costi associati al continuo reclutamento, assunzione e formazione di nuovo personale – dice Cooper – Inoltre, un lavoratore che non sa mai quanto avrà guadagnato alla fine del mese è sempre all’inseguimento di altri tipi di impiego più stabile, anziché concentrarsi sul ruolo professionale occupato in un dato momento”. 

Ecco spiegato perché l’assunzione a tempo pieno dei dipendenti, che spesso include anche la distribuzione tra essi di quote societarie, in modo da renderli direttamente responsabili del successo complessivo dell’impresa, sia attraente, al momento, soprattutto per i ristoratori più rinomati. Quelli che devono offrire ai propri avventori un’esperienza complessiva che giustifichi i prezzi elevati e che quindi hanno bisogno di personale qualificato, dedicato e coinvolto in ogni aspetto del lavoro. 

Non riguarda direttamente i lavoratori a mancia la battaglia per l’aumento del salario orario minimo che è stata portata avanti negli ultimi mesi soprattutto dai dipendenti delle catene di fast-food, anche attraverso una lunga serie di scioperi lampo e con una partecipazione sempre crescente.  Questo movimento, però, ha gettato nuova luce sulle difficili condizioni di vita di chi è impiegato nella ristorazione, diffondendo maggiore consapevolezza tra il pubblico su quanto poco questi lavoratori siano effettivamente pagati negli Usa e sul fatto che molti di essi non sono, come ci si immagina generalmente, studenti delle superiori in cerca di un lavoro temporaneo per tirare su un po’ soldi da spendere nel fine settimana, ma adulti con famiglie a carico. “Il dibattito sul salario orario minimo è in pratica già stato deciso a livello del pubblico, che vuole che sia aumentato – conclude Cooper - Solo il Congresso e i rappresentati dei governi statali ne stanno ancora discutendo”. 

Dato che il Congresso a Washington è sempre più diviso, con i democratici alla Casa Bianca e i repubblicani che ora dominano entrambe le camere, è difficile immaginare che le due parti possano raggiungere un compromesso promettente su questo fronte. Le conquiste che potrebbero avvenire nei prossimi mesi dipendono perciò quasi esclusivamente dalla volontà delle autorità locali e statali, che si sono mostrate più pronte sul tema del salario orario minimo, e dai singoli ristoratori. Come dimostrato dal tradizionale discorso sullo stato dell’Unione del 20 gennaio, però, non c’è dubbio che il presidente Barack Obama, che si prepara a lasciare la carica nel 2017 e sta cominciando a lavorare a fianco dei colleghi democratici alla campagna elettorale per le presidenziali del 2016, continuerà a spingere sul tema della diseguaglianza economica e a battersi per un programma volto a garantire maggiore equità economico-sociale e maggiori opportunità anche per gli americani meno privilegiati. 

 Valentina Pasquali

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