UNIVERSITÀ E SCUOLA

L'ombra della spending review sulle tasse universitarie

Il Consiglio di amministrazione dell’università di Padova ha approvato, con un solo voto contrario, un nuovo sistema di tassazione che verrà applicato dal prossimo anno accademico. “Non c’è nessun aumento delle tasse per gli studenti fino al primo anno fuori corso”, commenta Guido Scutari, prorettore per il diritto allo studio, “poi arriva un sistema progressivo, che tiene conto del merito e del reddito delle famiglie e che nella maggior parte dei casi porterà a un aumento di pochi euro”. Il voto arriva al termine di un confronto con i rappresentanti degli studenti che hanno visto accogliere parte delle loro proposte. Non ci sarà infatti l’abituale adeguamento delle tasse all’aumento del costo della vita misurato dall’Istat, che avrebbe significato un incremento del 3% per tutti gli studenti. “E diminuiscono – continua Scutari – i redditi minimi richiesti per il riconoscimento della condizione di studente lavoratore: da 6.500 a 3.500 euro l’anno. Misura che si accompagna alla già prevista riduzione delle tasse del 10% per questa categoria di studenti e al dimezzamento degli incrementi oggi introdotti per i fuori corso a partire dal secondo anno”.

Gli incrementi percentuali verranno applicati solo sulla contribuzione studentesca escludendo dal calcolo il bonus/malus, un meccanismo di azione sul merito (unico in Italia), che prevede la maggiorazione delle tasse per chi ha un merito, per voti e crediti, più basso del 30% rispetto agli altri studenti del proprio corso.La delibera del Consiglio ha sancito una spaccatura all’interno della rappresentanza studentesca. A schierarsi a favore del provvedimento è Gianluca Conzon di Ateneo studenti, che considera sufficienti le garanzie offerte alle fasce più deboli di reddito e, una volta evitato lo spauracchio dell’aumento Istat del 3% per tutti, auspica la destinazione di tutte le maggiori entrate alle borse di studio. Mentre Davide Quagliotto ribadisce il suo no al provvedimento e assieme al Sindacato degli studenti annuncia “la continuazione della protesta contro il concetto di merito”, tra i contrari si schiera anche Marco Zabai, rappresentante in Senato accademico dell’Unione degli universitari.

Puntano il dito sulla spending review e sull’ateneo che non sarebbe stato obbligato a deliberare gli aumenti da una immediata necessità di bilancio. A spingerli è soprattutto il timore, più volte dichiarato, che le università in crisi per i tagli ai trasferimenti dei finanziamenti statali cerchino di attingere le risorse mancanti dagli studenti. 

“Sarebbe assurdo – replica Guido Scutari – pensare di compensare tagli di milioni di euro con una misura che riguarda circa il 10% degli studenti concentrando la maggior parte dei suoi effetti nella fascia più bassa di incremento per studenti del secondo e terzo anno fuori corso. ”

Un ricorso al simulatore dell’Inps restituisce un ritratto un po’ più preciso delle famiglie che si possono collocare nella fascia economica più bassa. Quello di un nucleo di 4 persone, con un reddito lordo di 60.000 euro, una casa di proprietà, un mutuo residuo, 30.000 euro in banca e un Isee che non arriva a 25.000 euro. In questo contesto familiare un teorico studente di giurisprudenza fuoricorso da 3 anni pagherebbe 18 euro l’anno in più mentre uno studente fuoricorso da 10 dovrebbe versarne 108. Immaginando la più costosa frequenza dei corsi di medicina si va dai 24 euro ai 200 l’anno in più per i fuoricorso storici.

Ma il vero terreno di scontro, resta la questione del merito. Un esercizio ancora più difficile in epoca di scarsità delle risorse. Perché stabilire quanto è ragionevole estendere la protezione costituzionale dei “capaci e meritevoli, ancorché privi di mezzi”, equivale alla difficile ricerca di equilibrio tra necessità e questione di coscienza sociale.

Carlo Calore

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