SOCIETÀ

Fisco: una riforma divisiva

Nella manovra economica per il prossimo anno, la riduzione delle tasse sui redditi ricopre una parte importante, anche se non preponderante. Vengono stanziati 6 miliardi dal fondo per la riduzione della pressione fiscale, sui 23 complessivi della manovra. Quei 6 miliardi in realtà salgono poi a 8, se si considerano le misure già previste in precedenza per alleggerire il carico fiscale e contributivo sui redditi. È tanto? È poco? Quel che è certo è che, anche se parliamo di un terzo della manovra, è sul fisco che si è concentrato lo scontro, arrivato fino alla proclamazione dello sciopero generale e alla spaccatura dei sindacati. Si può vedere nella mobilitazione generale un segno del fatto che il fisco è e resta il tema più sensibile e identitario, e dunque non contenibile nella cornice della grande alleanza che va dalla Lega a Leu. Oppure – come alcuni commentatori hanno scritto - un pretesto, per mantenere le proprie identità che rischiano di scomparire sotto il grande mantello di Draghi. O ancora il ritorno del tema dell’eguaglianza e della giustizia sociale nell’agenda politica. Quest’ultimo sarebbe un segnale positivo, visto l’aumento delle diseguaglianze economiche, sociali, generazionali nel nostro Paese. Per questo ci si chiede se la nuova Irpef sia più o meno “giusta”, ossia se distribuisce quegli 8 miliardi nella direzione di una maggiore equità fiscale. Ma ci si deve anche chiedere se davvero era questo l’obiettivo, e soprattutto se quell’obiettivo può essere raggiunto (solo) mettendo mano alle aliquote.

Una nuova curva delle aliquote

Come ha detto l’ex ministro delle finanze Vincenzo Visco, quella che ha fatto il governo Draghi con la manovra 2022 non è una vera e propria riforma, poiché non mette mano a tutto quel che c’è, e soprattutto a quel che non c’è, nell’Irpef; ma si “aggiusta” la curva delle aliquote, per rimediare ad alcuni difetti. Il primo obiettivo è dunque tecnico, più che redistributivo: evitare salti di scaglione che comportano salti di imposta improvvisi e non giustificati; evitare distorsioni; semplificare e ripulire il sistema dopo che tanti interventi lo avevano reso poco comprensibile e poco razionale. La principale novità è che avremo una nuova curva delle aliquote, che da 5 passano a 4. L’aliquota sui redditi più bassi, fino a 15.000 euro all’anno, resta immutata al 23%. Quella sui redditi dai 15.000 ai 28.000 euro diminuisce leggermente, dal 27 al 25%. Il terzo scaglione di reddito cambia, nel senso che si ferma a 50.000 euro, mentre prima arrivava a 55.000: per questa fascia, l’aliquota scende dal 38 al 35%. Invece rimane invariata l’aliquota per i redditi più alti, al 43%: solo che prima interessava solo i redditi sopra i 75.000, adesso riguarda tutti quelli sopra i 50.000. Si potrebbe dire che nel complesso, lasciando le cose immutate ai piani più bassi (che peraltro erano stati più beneficiati da interventi passati, come i bonus prima di 80 e poi di 100 euro) e a quelli apicali, è una riforma che premia il ceto medio. Senonché, nella struttura dei redditi (dichiarati) in Italia, non sono tanto numerosi quelli che stanno in una classe media così definita. A stare alle dichiarazioni dei redditi del 2019, più della metà dei contribuenti Irpef (circa il 54%) sta sotto i 29.000 euro; di questi, circa il 19% è sotto i 15.000 euro annui. Se si considera poi che i redditi da 29.000 a 50.000 euro riguardano solo il 15,5% dei contribuenti, si capisce che la nuova curva delle aliquote non è fatta per premiare un ipotetico ceto medio. E del resto non era redistributiva la sua intenzione, più concentrata sulla razionalizzazione del sistema, non a caso lodata dagli esperti del fisco Silvia Giannini e Simone Pellegrino, che apprezzano il fatto che si tratta di misure “ben congegnate”, per eliminare distorsioni pre-esistenti nel sistema; e fanno notare che sì, “si è dato maggior peso all’efficienza rispetto all’equità”; ma per valutare complessivamente l’impatto redistributivo dell’intervento si deve tener conto di tanti fattori, come gli effetti lunghi dei precedenti bonus, le decontribuzioni, e la revisione delle detrazioni.

Il punto debole dell'Irpef

Ma insieme a tutte queste considerazioni, ne vanno aggiunte altre, guardando fuori dall’Irpef. Alla quale non si può chiedere quello che non può dare: un fisco più equo. Soprattutto, non lo si può fare solo manovrando aliquote e detrazioni. Il principale problema dell’Irpef, lo dice lo stesso ministero dell’economia nel suo Rapporto sull’evasione fiscale, è che è l’imposta con il più alto tasso di “propensione al gap” – che è un modo elegante per dire “propensione all’evasione”. Insomma, molti non la pagano, perché non dichiarano in tutto o in parte i loro redditi. Vecchia storia, antico problema: ma non è quello delle “riforme” il momento giusto per mettere mano ai problemi storici? A proposito, è bene tornare sulle pagine del Rapporto prima citato. Si tratta di un testo che il governo deve presentare ogni anno (siamo forse l’unico Paese al mondo nel quale le Finanze devono rendicontare ogni anno tutto quello che a loro sfugge), e da poco abbiamo saputo che l’evasione fiscale si è ridotta, a “soli” 99,3 miliardi (dai 102 dell’anno precedente). Il punto più debole è l’Irpef dei lavoratori autonomi, per i quali la percentuale evasa del reddito (la “propensione al gap”) è attorno al 70%. Anche Iva, Ires, Irap e Imu fanno la loro parte, con una propensione a evadere sul 20-30%.

Le ingiustizie legalizzate

Poi ci sono le ingiustizie legali, o meglio legalizzate. Come quella dell’Imu, che si paga sui valori catastali spesso lontanissimi da quelli di mercato: in proposito, la delega fiscale al governo prevede un aggiornamento del catasto, ma scrive nero su bianco che non sarà utilizzato ai fini fiscali. Una mappa pubblicata da lavoce.info fa vedere che dall’attuale catasto sono avvantaggiati soprattutto i proprietari di secondo case nei centri urbani e nelle località di vacanza. Ma, se davvero volessimo redistribuire il carico fiscale, andrebbe anche ripensata la flat tax per gli autonomi in regime forfettario, fissa al 15% fino ai 65.000 euro: non proprio i più poveri. E le ultime agevolazioni, quelle che piacciono anche ai giustizialisti a 5 stelle, legate al popolarissimo superbonus: del quale si può avvantaggiare chi ha case e ristrutturazioni in corso, con una redistribuzione, anche qui, dai contribuenti più poveri ai meno poveri e ai più ricchi (anche ricchissimi). In questo panorama, l’attenzione esclusiva sull’Irpef rischia di distrarre da altri interventi che potrebbero portare insieme più efficienza, e più equità. Ma forse farebbe saltare l’equilibrio politico che regge il governo Draghi, se si considera che alcuni suoi componenti (tutta la destra e Italia Viva) hanno considerato punitiva per “il ceto medio” la proposta di un momentaneo rinvio dello sconto sull’Irpef per i redditi sopra i 75.000 euro.

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