SOCIETÀ

Messico-Usa: il muro? Non serve più, grazie

Nella difficile contrapposizione tra repubblicani e democratici al Congresso americano, dove i primi sono in maggioranza alla Camera e fanno ostruzionismo su ogni provvedimento proposto da Obama, è opinione comune che uno dei pochi compromessi che si potrà raggiungere sarà su una riforma delle politiche sull’immigrazione.

Nell’ultimo voto presidenziale, l’elettorato ispanico è stato decisivo per la rielezione di Obama , avendo votato in massa per i democratici. E proprio perché i latinos stanno diventando la più importante minoranza del paese - grazie a tassi di fertilità e di migrazione superiori a quelli di ogni altro gruppo etnico - è probabile che i repubblicani accetteranno un ammorbidimento delle politiche sull’immigrazione, per non alienarsi definitivamente un gruppo sociale che diventerà elettoralmente sempre più importante e che è naturalmente molto sensibile all’argomento.

Sono infatti milioni i latinos clandestini che vivono e lavorano negli Stati Uniti e che sperano in una sanatoria. Lo scenario probabile è quindi quello che i repubblicani voteranno dei provvedimenti volti a regolarizzare molti degli immigrati illegali presenti sul territorio e a facilitare i ricongiungimenti familiari.

Gli ispanici presenti sul territorio americano, perlomeno quelli di prima generazione, provengono soprattutto dal Centro America, in particolar modo dal vicino Messico. Nello stereotipo americano, il confine tra Stati Uniti e Messico è una cortina che separa il paese più ricco del mondo da una terra dove migliaia di poveri disperati aspirano a un futuro migliore e cercano a tutti i costi di varcare la frontiera e iniziare una nuova vita su suolo statunitense.

È però di questi giorni la pubblicazione di un sondaggio Gallup dai risultati sorprendenti, volto a valutare quante persone in Messico e negli Usa desiderino lasciare il proprio paese. Ebbene, a febbraio 2013 la percentuale di messicani e di statunitensi desiderosi di emigrare altrove è la stessa. Si tratta dell’11%, una percentuale stabile per quanto riguarda gli Stati Uniti, ed è dimezzata invece in cinque anni per quel che concerne il Messico (era al  21% nel 2007).

Per molto tempo gli Stati Uniti hanno considerato più o meno ragionevolmente il proprio paese come il maggior polo d’attrazione a livello mondiale e il Messico come un territorio pericoloso,povero e senza prospettive, di cui al massimo godere le spiagge. E da cui, conseguentemente, proveniva una pressione migratoria tanto forte da richiedere misure capaci di contenerla. È infatti appena  del 2006 il Secure Fence Act, che diede il via alla costruzione di quasi 1000 chilometri di muro tra Messico e Stati Uniti. Un controverso provvedimento che nel 2010 venne fermato da una decisione dell’amministrazione Obama, che interruppe l’edificazione di altri chilometri di barriera.

Sebbene al momento dello stop ad altre parti di muro, il Secure Fence Act fosse appoggiato da quasi il 70% degli americani, è probabile che la percezione pubblica del problema dell’immigrazione sia destinata a cambiare: come il sondaggio Gallup attesta, sempre meno messicani infatti sembrano essere desiderosi di migrare negli Stati Uniti.

La spiegazione di questa inversione di tendenza è semplice: il Messico è un paese in forte crescita e, nonostante gli ancora alti tassi di criminalità e la diffusa corruzione, riesce ad attrarre investimenti stranieri grazie al basso costo della manodopera e alla posizione strategica, fra i due oceani e al confine con il ricco mercato nordamericano, cui è legato dai trattati Nafta. Secondo le statistiche Ocse, nel 2013 il prodotto interno lordo messicano dovrebbe aumentare del 3,3%, rispetto al 2% della crescita americana prevista per quest’anno. Inoltre il tasso di disoccupazione si è attestato ormai al 5%, oltre due punti in meno del dato nazionale statunitense. Perché dunque emigrare, affrontando rischi, difficoltà e un probabilmente lungo periodo di clandestinità, quando si può vivere e lavorare nel proprio paese?

Marco Morini

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