SOCIETÀ

Non buttare la spazzatura. Indossala

“La plastica è il futuro della moda”. Anticipava i tempi Elsa Schiaparelli, una stilista tra le più importanti della prima metà del Novecento, e la profezia sembra essersi avverata. Nel 2012 Livia Giuggioli, ex produttrice cinematografica e moglie dell’attore Colin Firth, si presenta ai Golden Globe in Armani nero con fantasie floreali. Un abito da far invidia a molte, ottenuto utilizzando il Newlife di filature Miroglio. Un tessuto pregiato? Tutt’altro: un filo continuo di poliestere prodotto dal riciclo di bottiglie di plastica. Sulla stessa strada Valentino e, recentemente, Levi’s che per la collezione primavera-estate 2013 ha proposto una linea di jeans e giacche che contengono il 20% di plastica riciclata, otto bottiglie. Abiti fatti di rifiuti, dunque, per dirla con lo slogan del noto marchio. 

Se l’iniziativa può destare sulle prime un po’ di meraviglia, si scoprirà invece che il riciclo è solo uno degli ambiti in cui realizza il “tessile sostenibile”. Parola d’ordine: riduzione del consumo di risorse idriche ed energetiche, delle sostanze chimiche utilizzate, delle emissioni prodotte, nonché migliori condizioni di lavoro specie nei paesi in via di sviluppo. 

Qualche esempio. Secondo i dati di GreenItaly 2013. Nutrire il futuro, rapporto annuale di Unioncamere e Fondazione Symbola, il poliestere che si ricava da scarti di produzione e da polietilene tereftalato (il Pet che si trova nelle bottiglie di plastica) permette una riduzione dell’84% dei consumi energetici rispetto a una microfibra tradizionale e il carico di anidride carbonica viene abbattuto del 77%. Così in Italia RadiciGroup realizza fili di poliestere, utilizzando al 100% bottiglie di plastica riciclate e Aquafil dal 2011 produce il nylon Econyl impiegando rifiuti come reti da pesca, fluff (la parte superiore di tappeti e moquette) e tessuti rigidi. Il risultato? Venti ricercatori impiegati per quattro anni, tre università che hanno partecipato al progetto, circa 16.000 tonnellate di rifiuti trasformati in nylon fra il 2011 e il 2012. 

“La cultura della sostenibilità – sottolinea il rapporto – ha trovato terreno fertile in quella cultura d’impresa che ha investito in ricerca e innovazione, rafforzando il legame con il territorio e con le comunità coinvolte dalle proprie attività”.

Utilizzare materie prime “green” implica sviluppare tessuti innovativi, consolidare filiere biologiche certificate, oltre a riciclare i tessili (abiti usati o scarti di lavorazione) e non, come il Pet. E allora sebbene a livello mondiale a prevalere sia l’uso di fibre sintetiche (“men made”) e su tutte del poliestere (degli oltre 78,5 milioni di tonnellate di fibre consumate nel mondo ben il 67,5% sono fibre artificiali), in Italia sono in aumento le aziende certificate che utilizzano fibre naturali da agricoltura biologica: secondo i dati dell’Istituto per la certificazione etica e ambientale (Icea) dalle 12 del 2005 alle 84 di oggi. Un buon secondo posto per il nostro Paese in Europa, dopo la Germania. 

Ecco dunque disponibili sul mercato il cotone biologico dell’azienda Albini o riciclato di Timavo & Tivene, il cotone verde o marrone di 3C Company ottenuto attraverso la selezione di semi da cui crescono piante di cotone naturalmente colorato, il filato di Larusmani composto da cotone riciclato e materiali nuovi come il bambù che permette una riduzione nel consumo di acqua, energia e prodotti chimici fino al 90%. Non sono poche in Italia le aziende che hanno abbracciato il tessile sostenibile, come si può vedere dal Catalogo dei tessuti e degli accessori sostenibili

Ma il rapporto GreenItaly 2013 è chiaro e individua non solo nelle materie, ma anche nel processo e nel prodotto le altre due linee di sviluppo del tessile sostenibile. Per quel che riguarda il processo si consideri che tintura e finissaggio (le criticità maggiori) provocano un forte impatto sull’ambiente con un consumo di circa l’85% delle acque necessarie in tutto il processo produttivo, il 75% dell’energia e il 65% di prodotti chimici. E anche in questo caso le alternative non mancano. Dal nuovo metodo di “imbozzimatura” (domanda di brevetto depositata da Canepa) che permette di ridurre fino all’80% l’uso di inquinanti rispetto ai metodi tradizionali e del 40% il consumo di acqua ed energia, alla sabbiatura del jeans (lo scolorimento chimico) che il gruppo abruzzese Fimatex ottiene utilizzando non più biossido di silicio ma scarti del ciclo alimentare completamente biodegradabili. Fino allo Zero-Water jeans della stessa azienda, un nuovo macchinario che “invecchia” il jeans in modo meccanico senza far ricorso all’ozono. E infine se vien da sé che la sostenibilità a livello di prodotto altro non è che un mix di innovazione nell’ambito delle materie e dei processi, non mancano le aziende che fin dalla fase di progettazione pensano a oggetti a basso impatto ambientale. Come Olmetex che crea un tessuto resistente all’acqua senza alcun finissaggio chimico, ma in modo bio-dinamico.

Certo, a pesare è anche la spendibilità dei prodotti sul mercato e gli stilisti su questo fronte, nella scelta dei tessuti per le loro linee, hanno un ruolo determinante. Ma la sensibilità sembra esserci, da Londra a Parigi a Milano. Anche sul fronte legislativo l’impulso alla sostenibilità nel tessile nel nostro Paese non manca. Il decreto legge collegato alla legge di stabilità approvato dal Consiglio dei ministri prevede infatti tra le altre cose incentivi per i consumatori, le aziende e gli enti locali per l’acquisto di prodotti realizzati con materiali che derivano dalle raccolte differenziate. 

Come dire, il tessile green si fa di tendenza e conveniente.

Monica Panetto 

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