CULTURA

Obbedire alla propria libera coscienza

Ascoltare Mancuso è come assistere a un ragionamento nel suo farsi e questo, accanto al suo calore, lo rende interlocutore ideale per i laici e una sfida inevitabile per i credenti. E che il dialogo, quel pro veritate adversa diligere che era già di Martini, sia davvero al centro del pensiero e delle opere di Mancuso si capisce anche dalle domande che suscita e per le quali – ammette – non sempre può esistere risposta. Non è certamente la dottrina che può risolvere i paradossi dell’uomo di fronte a Dio e al divino: l’esistenza del male, il destino dell’anima, l’obbedienza ai dettami di una religione che pure ha tra i suoi principi il libero arbitrio e la responsabilità personale. Non può essere più la Chiesa, ormai struttura eminentemente terrena, a dare una risposta plausibile al credente, meno ancora al laico o al dubbioso.

È per questo che, come scrive nel suo ultimo libro, decide di affondare il “bisturi per entrare nelle carne viva della Chiesa, per portare alla luce la causa principale della malattia mortale che l’affligge”. Ma il motivo che lo spinge alla critica non è la ribellione o la disobbedienza, quanto piuttosto la presenza del dolore innocente (in particolare l’handicap e le malattie genetiche) che spezza il legame tra natura e Dio onnipotente, l’esistenza del male (dalla comune cattiveria fino alla tragedia di Auschwitz) che contraddice il legame tra la mano onnipotente di Dio e la “configurazione concreta della storia”. E tra le varie forme di dissenso interno che la Chiesa ha conosciuto, il suo vuole essere un dissenso teologico, quasi un discorso sul metodo. La contraddizione tra libertà interiore e obbedienza alla Chiesa – anche in campo politico e sociale – si risolve con l’obbedienza interiore alla propria coscienza e al messaggio cattolico (“universale”) originario, che se necessario si veste di disobbedienza esteriore alla struttura ecclesiale dimentica dei principi di libertà e autenticità.

La teologia contemporanea, secondo Mancuso, deve essere “aderente al reale”, perché troppo forte è l’esigenza di verità nei confronti della realtà, intessuta di tragedie e dolori senza ragione, per cui solo la speranza della fede può consolare. Nessun progresso della storia, infatti, può giustificare o ripagare il carico di lacrime e di sangue dell’umanità. La fede è il “sogno della razionalità del mondo”, il voler riconoscere un senso al mondo, la speranza che il bene prevalga sulla forza di nietzschiana memoria, che questo “immenso lavoro del cosmo sfoci in un punto al di là del tempo e dello spazio che pesi il tempo e lo spazio, in un ‘palazzo della ragione’, dove si asciugano le lacrime e si trova giustizia”.

Tra credenti e non credenti “che aderiscono al vero”, alla fine, non c’è differenza sostanziale: il “guadagno della fede” – non nega – è solo esistenziale, mai teoretico. Il guadagno è solo la speranza. A chi obietta che a sperare troppo nell’aldilà si rischia di essere troppo acquiescenti con l’ingiustizia dell’aldiquà, ribatte con la necessità del fare, del consolare, della teologia della liberazione e di tutte le forme di lotta contro l’ingiustizia, fino al caso esemplare di Dietrich Bonhoeffer, teologo finissimo che partecipò alla congiura per uccidere Hiltler, senza successo. “Purtroppo “,  aggiunge Mancuso. Se davvero l’incipit del Quarto Vangelo, “In principio era il logos” trova corretta interpretazione nel faustiano “In principio era l’azione”, allora il vero credente non può esimersi dalla lotta per il bene di questo mondo.

E la speranza è anche la chiave per leggere il dualismo anima-coscienza. “Se è vero che tutto ciò che è animato e si muove ha un’anima (quindi uomini, animali e piante) - continua Mancuso - è anche vero che per noi uomini la consapevolezza e la coscienza sono l’unico modo che abbiamo per ‘esperire l’anima’, quindi anima e coscienza devono logicamente coincidere”. Ma è la speranza, della fede e della ragione, che ci impone di credere che debbano essere distinte, per cui, conclude, “se Martini chiede di essere sedato e di affrontare la morte senza coscienza non voglio credere che sia rimasto senz’anima”.

 

Cristina Gottardi

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