SCIENZA E RICERCA

Occidentali e depressi ma immuni dal “koro”

Nel 1984-85 nelle province del Guangdong in Cina, più di 2.000 persone nel corso di un anno furono colpite da un’epidemia di koro, una malattia psichiatrica caratterizzata dalla sensazione da parte del paziente che gli organi genitali si stiano ritraendo nell’addome e accompagnata dal timore di morte imminente. Tipica invece della Malesia, Indonesia e Nuova Guinea è l’amok, che si manifesta con un crescendo di furia omicida dovuto a un’offesa ritenuta intollerabile e seguito da amnesia. Mentre in America latina è conosciuto l’ataque de nervios, un attacco di panico che si manifesta con sintomi dissociativi, grida incontrollabili, attacchi di pianto, tremori, aggressioni verbali e sensazione generale di perdita di controllo.  

Si tratta delle cosiddette culture-bound syndromes (malattie culturalmente determinate), vocabolo coniato nel 1962 dallo psichiatra cinese Paw Meng Yap per indicare malattie mentali, cui si potrebbe aggiungere anche il windingo psychosis in India, il latah in Malesia e Indonesia e la lista sarebbe ancora lunga, che si manifestano in aree geografiche ben precise e che non sono riconducibili ad alcuna delle categorie diagnostiche generali indicate nel Diagnostic and statistical manual of mental disorders (Dsm), prodotto dell’American Psychiatric Association.

Proprio in occasione della recente quinta edizione del manuale (Dsm-V), Christopher Dowrick nell’ultimo numero del British journal of general practice sembra riaprire la questione del ruolo dei fattori culturali e dell’ambiente sociale di appartenenza nella diagnosi di malattia mentale con un’ipotesi interessante. La depressione, ipotizza tra le righe, può essere figlia della cultura occidentale? Può essere considerata una culture-bound syndrome? I numeri danno qualche indicazione. Uno studio di Evelyn Bromet del 2011 sembra indicare la prevalenza di questa patologia nelle zone a reddito più alto: si stima infatti che ne soffra il 15% della popolazione nei paesi ricchi, contro l’11% nei paesi più poveri. Se questa è la media, tra le aree con prevalenza inferiore (meno del 10%) India, Messico, Cina e Sudafrica; al contrario Francia, Paesi Bassi, Nuova Zelanda e Stati Uniti riportano i tassi più alti. Tra le possibili cause di questa differenza, sottolinea l’autrice, si può indicare la maggiore esposizione allo stress. La depressione, dunque, è in qualche misura la malattia del benessere. 

Allo stesso modo, d’altra parte, molti altri medici tra cui Prince nel 1985, Di Nicola nel 1990, Lee nel 1996 hanno discusso sulla natura culture-bound di un’altra patologia psichiatrica molto diffusa in occidente come l’anoressia nervosa: sebbene la malattia trovi ragione nel 50% dei casi in una componente genetica, l’ambiente sociale e culturale di appartenenza e i modelli da questo imposti sembrano esercitare la loro influenza. 

Ma l’apporto dei fattori culturali nella diagnosi di malattia mentale, cioè di quell’insieme di norme comportamentali, significati e valori di riferimento condivisi dai membri di una società, è una questione ancora aperta. Il Dsm costituisce un punto di riferimento a livello internazionale nella diagnosi di malattia mentale, come dimostra la sua traduzione in 30 lingue, ma l’eccessiva distinzione in categorie diagnostiche, che nell’ultima edizione sembrano addirittura aumentate, non ha mancato di far discutere. Come nel caso, si legge sul New Yorker, di Thomas Insel, direttore del National Institute of Mental Health, e prima di lui Steven Hyman suo predecessore. 

Se nel 1952 alla sua prima uscita il manuale si caratterizzava come un mix di “terminologia psicoanalitica” e “concettualizzazioni psicobiologiche meyeriane”, sottolinea Renato Alarcón, nel 1980 l’approccio cambia completamente con l’adozione, nella diagnosi di malattia mentale, di categorie descrittive individuate sulla base di criteri ben precisi. Questo avviene tuttavia con la totale omissione della componente culturale, se si esclude qualche timido accenno qua e là. Un passo avanti, pur modesto, si compie nella quarta edizione del Dsm: si riconosce la “prospettiva culturale” anche se si traduce di fatto in contributi molto modesti, tra cui un glossario (incompleto) delle culture-bound syndromes. 

Il problema, sottolinea Dowrick, sorge dall’egemonia culturale e politica imposta dagli Stati Uniti a livello internazionale. E anche il Dsm, figlio dell’American Psychiatric Association, sembra essere espressione di questa cultura e di questa tendenza al punto, aggiunge Renato Alarcón, da essere tacciato da alcuni di etnocentrismo. In realtà, il concetto di salute e malattia è strettamente legato alla cultura di appartenenza e può cambiare in modo sostanziale se dai paesi occidentali ci si sposta a quelli orientali. Nei prossimi 20-30 anni, osserva Dowrick, si prevede che paesi come la Cina, assieme all’aumentare del peso economico e politico, vedano crescere anche il ruolo di un modello culturale differente rispetto a quello occidentale e un modo diverso di concepire la salute e la malattia. Il concetto di unità del corpo e della mente, tanto discusso nella società occidentale, potrebbe essere accettato da una cultura come quella cinese, in cui l’accento posto sulla dimensione sociale e “spirituale” della malattia è maggiore. E in questa prospettiva “costringere” la malattia mentale entro i margini di categorie universali può rivelarsi limitante. 

L’importanza dei fattori culturali nell’ambito della malattia mentale sembra affiorare del resto anche nel piano di azione globale per la salute mentale 2013-2020 dell’Organizzazione mondiale della sanità in discussione, tra gli altri temi, a Ginevra  in questi giorni al World Health Assembly. Il riferimento al contesto culturale di appartenenza è presente in più di un punto, soprattutto laddove si sottolinea la necessità di comprendere l’espressione “locale” del disagio mentale.

Monica Panetto 

 

© 2018 Università di Padova
Tutti i diritti riservati P.I. 00742430283 C.F. 80006480281
Registrazione presso il Tribunale di Padova n. 2097/2012 del 18 giugno 2012