SOCIETÀ

Poveri Tedeschi, Ricchi Italiani

Il successo delle riforme del mercato del lavoro in Germania è fuori discussione. Il paese è riuscito a invertire un pericoloso declino: nei primi anni 2000 era considerata il grande malato d’Europa, oggi è diventata il modello di riferimento per i paesi europei più in difficoltà. I numeri lo dimostrano: la disoccupazione è calata drasticamente, dal 12,6% al 5,1%, Il PIL è cresciuto, la competitività del paese si è rafforzata sui mercati internazionali.  

Se le riforme hanno rimesso in sesto l’economia e rimpinguato le casse statali, non altrettanto è accaduto, sostiene Patricia Szarvas autrice di Ricca Germania, Poveri Tedeschi (UBE 2014), per la qualità della vita dei cittadini. I dati riportati nel libro sorprendono. Pur essendo la Germania un paese ricco, 1,5 milioni di tedeschi hanno bisogno del sostegno di un centro di distribuzione viveri (numero raddoppiato negli ultimi 5 anni), il 16% dei tedeschi è “a rischio povertà” (da intendersi nel senso di povertà relativa, non assoluta), uno dei livelli più alti di tutta l’eurozona. Molti tedeschi, pur lavorando, non guadagnano a sufficienza per vivere e hanno bisogno di un sussidio statale per integrare il loro reddito. 

Cosa spiega questa profonda contraddizione tra quantità di lavoro e qualità della vita? Nel rispondere a questa domanda la Szarvas punta l’indice contro una delle riforme più controverse contenute nella famosa Agenda 2010 voluta dall’allora governo Schroeder: la riforma del mercato del lavoro. Ribaltando la sedimentata cultura del Soziale Marktwirtschaft, l’economia sociale di mercato, il governo tedesco introdusse un pacchetto di interventi indirizzati a rendere più flessibile il mercato del lavoro. Una drastica inversione di tendenza: abolizione del salario minimo, revisione della durata del sussidio di disoccupazione per una durata massima di 12 mesi, introduzione di contratti di lavoro flessibile e atipico (lavori temporanei, minijob), maggiore semplicità sia nell’assumere che nel licenziare. 

Il senso di questa cura dolorosa, lo spiega molto chiaramente Hans-Werner Sinn, uno dei consiglieri economici più ascoltati del governo tedesco, nell’introduzione del libro della Szarvas: “… Ridurre il salario minimo implicito derivante dalle prestazioni previste dal sistema sociale. […] Con questo abbassamento, lo stato sociale smette di essere più allettante del lavoro e diminuiscono le aspettative salariali. Il che porta le aziende a creare più posti di lavoro a un salario inferiore”. Ed è effettivamente ciò che è accaduto. Il boom occupazionale tedesco è riconducibile in larga misura alla crescita delle occupazioni flessibili e atipiche, a bassa retribuzione. 

In 10 anni la quota di impieghi atipici è passata dal 20% al 25% della forza lavoro: 2,5 milioni di lavoratori sono impiegati in un minijob. L’idea alla base di questa scelta dell’establishment tedesco era legata alla natura “temporanea” della flessibilità: un sacrificio necessario per rilanciare l’economia e per creare migliori condizioni sociali ed economiche per tutti una volta superata la fase critica della crisi. In sostanza un modo per facilitare l’ingresso nel mercato del lavoro e per consentire ai disoccupati di trovarsi in tempi rapidi un nuovo posto. 

Tuttavia, per ammissione del grande ispiratore della riforma, l’ex-cancelliere Schroeder, questa fase temporanea si è cronicizzata: il lavoro flessibile non si è trasformato in lavoro a tempo indeterminato, diremmo con linguaggio italiano; le imprese hanno approfittato delle nuove regole per diminuire il costo del lavoro, trasformando lavori stabili e duraturi in flessibili. La Szarvas definisce senza mezzi termini questa operazione come una forma di dumping, un aiuto di stato mascherato attraverso il quale le imprese tedesche hanno potuto accrescere la propria competitività a livello internazionale. 

A queste distorsioni evidenti del mercato del lavoro il governo attuale di Angela Merkel sta cercando di porre rimedio: introducendo un salario minimo di 8,50 euro lordi l’ora, imponendo un tetto massimo di 18 mesi per il lavoro temporaneo (dopo 9 mesi comunque va retribuito come lavoro regolare), prevedendo una pensione minima di anzianità a 850 euro anche a chi non è riuscito ad accumulare sufficienti contribuiti previdenziali nella sua vita lavorativa.

Nonostante questi correttivi, il giudizio della Szarvas sulle riforme rimane negativo. Se da un lato è vero che si è ridotta la disoccupazione (un bene in sé) dall’altro si è costruita una profonda disparità nella società tedesca dando vita ad una segmento molto ampio di working poors, persone che pur lavorando non sono in grado di avere risorse sufficienti per una vita dignitosa. Le riforme ispirate dalla volontà di migliorare le condizioni di vita e offrire nuove opportunità agli esclusi dal mercato del lavoro si stanno trasformando in nuove  ingiustizie sociali e in una distribuzione asimmetrica del reddito: chi è al vertice della piramide retributiva vede costantemente aumentare il proprio reddito disponibile a scapito di chi si trova alla base.

Al di là della specifica situazione tedesca, questo libro è interessante per noi italiani per almeno due ragioni. La prima è di ordine politico. Il libro ci consente di comprendere meglio le motivazioni profonde che stanno dietro all’austerity tedesca che l’Europa ci ha fatto digerire con il Fiscal Compact. Per quanto possano essere importanti le differenze culturali, le ragioni della scelta di stringere i cordoni della borsa europea sono dovute anche alla situazione interna tedesca: come giustificare agli occhi di chi vive di minijob e fatica ad avere un reddito decente un’operazione di soccorso dei paesi del Sud Europa caratterizzati da una finanza pubblica percepita come allegra e spendacciona? Come spiegare i motivi per i quali in Italia abbiamo, ad esempio, i baby pensionati?

La seconda è più legata all’analisi della situazione italiana. Il libro ci offre, infatti, una nuova prospettiva dalla quale leggere il nostro paese. Prendendo la Germania come paragone l’Italia si trova quasi nella situazione opposta: mentre le nostre casse pubbliche sono mal messe e il nostro PIL rimane anemico, la ricchezza privata delle famiglie italiane non è mai stata così alta, come recentemente confermato da un rapporto della BCE (anche se investita per la stragrande maggioranza nella prima casa). La nostra qualità della vita si è sicuramente deteriorata rispetto al periodo pre-crisi ma raramente vediamo gli italiani raccogliere le lattine nei cestini dell’immondizia o fare la fila per avere un pasto gratis dallo stato come accade in Germania. Se non suonasse troppo provocatorio, potremmo dire “Povera Italia, Ricchi Italiani”, come ha ironizzato l’ex ministro tedesco Otto Schily al Salone del Libro di Torino.

 È evidente che non possiamo rallegraci della nostra situazione. Dal confronto con la situazione tedesca possiamo però trarre qualche indicazione utile per capire la strada da intraprendere per il risanamento del nostro paese. Abbiamo capito quanto la decisione della Germania di incidere nella riduzione dei costo del lavoro per quanto efficace ha degli importanti effetti collaterali dal punto di vista economico e sociale nel breve termine (disparità sociale) e nel medio-lungo termine (quali i costi per le casse statali per sostenere chi non è riuscito a versare sufficienti contribuiti previdenziali?). Questa sembra essere la strada scelta dal governo Renzi con il cosiddetto Job Act. 

Forse per l’Italia potrebbe essere più utile e realistico seguire una strada diversa: aumentare il valore aggiunto dei nostri prodotti e la produttività del lavoro. Come farlo in un paese caratterizzato da una forte base manifatturiera come il nostro? Investendo in nuove tecnologie dell’informazione e della comunicazione e aumentando la qualità dei servizi che ruotano attorno al prodotto. Sfruttando questa combinazione potremmo ad esempio esaltare la capacità delle nostre imprese di realizzare prodotti su misura, e quindi più ricercati sul mercato, attraverso una maggiore interazione con il consumatore, rapporto che oggi il digitale rende possibile a costi contenuti. Se non riusciamo da soli in questa trasformazione, saremo costretti a continuare sulla strada tedesca: una dolorosa riduzione del costo del lavoro e dei redditi.

Marco Bettiol

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