SOCIETÀ

Prodi: basta con l’Europa della paura

Romano Prodi non ama i tecnicismi. E gli basta un’ora e mezza spedita nell’Aula magna dell’università di Padova, per fare un’analisi (che non ha nulla di bonario) degli ultimi 30 anni di politica europea. Senza rinunciare alla semplicità e all’ironia, bacchetta tutti i medici riuniti al capezzale dell’Unione. A partire dal loro 'primario', l’onnipresente commissario finlandese agli affari economici e monetari Olli Rehn con il suo consueto “monito settimanale” sul rigore dei conti pubblici. “Le norme sul patto di stabilità – ricorda – sono sane, ma diventano stupide se non ci sono gli strumenti politici per farlo rispettare in modo sostenibile. I primi a trasgredirlo? Furono Francia e Germania”. Ovvero l’asse portante di un’Europa a due cilindri che non esiste più. “Oggi la Germania ha cambiato lo schema europeo ed è lei a dominare, da sola”. Per capirlo – invita il Professore – basterebbe guardare ai vertici del recente passato tra i due Paesi: una recita a soggetto, con “la Merkel che scriveva le conclusioni e Sarkozy che si occupava delle conferenze stampa”. Questo senza neppure contare la capacità tedesca di interpretare il ruolo di organizzatore della politica industriale europea (coinvolgendo ad esempio Polonia e Repubblica Ceca) e il suo attivismo in Cina. Dove ha ‘piazzato’ tra i 6.000 e i 7.000 funzionari pubblici, in ambasciate, camere di commercio e istituzioni. “L’Italia, per dare un’idea dell’impegno, ha lì circa 250 persone”.  

La fuga in solitario della Germania, insomma, è una realtà. L’arretramento delle istituzioni europee, con l’eccezione della Banca centrale (“la sola a dimostrarsi capace di impedire un disastro”) una semplice conseguenza. Eppure, nonostante siano queste difficoltà politiche a mettere in crisi l’euro, e non il contrario, “alle prossime elezioni per il Parlamento di Bruxelles c’è il rischio dell’affermazione di partiti che sfruttano il drammatico momento economico per schierarsi su posizioni antieuropeiste”, registra Prodi. Accadrà ovunque, tranne in Germania, dove il successo di certe formazioni non sembra possibile.

“Lì – argomenta – sono la Merkel e il governo ad aver assunto i toni di durezza che tanto piacciono ai populisti”. E che impediscono l’avvio di politiche di ripresa viste con favore anche dagli uomini d’affari. Il paradosso tedesco è proprio questo: "un Paese con 240 miliardi di euro di surplus, con un’inflazione e uno sviluppo prossimi allo zero che rifiuta di dare benzina alla propria economia”. E rimane ‘estraneo’, schiavo di un’opinione pubblica ossessionata dallo spettro di un possibile ritorno dell’inflazione e indisponibile ad ogni misura che possa suonare come un favore ai pigri meridionali.

Niente di più sbagliato, perché “nessuno chiede l’elemosina alla Germania” – afferma il Professore – “anzi, nelle politiche di salvataggio durante la crisi l’Italia ha contribuito per più di 50 miliardi di euro, con la Germania che ha superato i 70.” Ma l’impegno italiano appare anche superiore, fatte le proporzioni tra le due economie. “Serve allora un’alleanza politica di Francia, Spagna e Italia” per uscire dall’attuale stallo politico e fronteggiare la sopravvalutazione dell’euro, spinta dal surplus di Berlino. In fondo, ricorda, “quando incontravo il cancelliere tedesco Helmut Kohl [l’artefice della riunificazione tedesca, uno dei padri dell’euro e dell’allargamento dell’Unione, ndr] lui mi diceva che i tedeschi non volevano la moneta unica, ma che lui pensava a una Germania europea e non a un’Europa germanica”.

In quel momento, anche se l’Italia aveva molti punti deboli (“Certo avrebbe fatto comodo qualche tempo in più per aggiustarci”, ammette), era necessario salire sul treno della storia, che passa una volta sola. E poi “cosa sarebbe stata l’Italia se non fossimo entrati nell’euro?" Infatti, quando fu presa la decisione sull’ingresso nella moneta, il rapporto tra lira e marco aveva ormai sfiorato quota 1.000 (un bel salto dal 144,24 dei primi anni Sessanta). Le difficoltà nascono dopo. In particolare per l’assenza di una politica economica e finanziaria coordinata (anche dal punto di vista fiscale) che doveva seguire l’entrata in vigore della moneta: un insieme di regole comuni per i momenti di crisi. A stopparle ci hanno pensato prima il cambio dei leader europei, che allora ne sostenevano la necessità, poi l’affacciarsi delle grandi paure. “Paura della Cina, della globalizzazione, della disoccupazione, dell’immigrazione, di tutti gli aspetti nuovi della politica europea”, paure che sono anche la causa dell’immobilismo attuale.

Ai molti critici dell’allargamento dell’Unione europea, Prodi ricorda il vuoto che si era venuto a creare dopo la caduta della Cortina di Ferro, con la possibilità di nuove tragedie per l’intero Continente. Un’affermazione rivelatasi tempestiva: basta confrontare i progressi della Polonia di oggi con le tensioni in Ucraina, che dall’Unione è invece rimasta esclusa.

“L’Italia stessa era il centro del mondo durante il Rinascimento, e per il fatto di non essersi unita è scomparsa dalla carta geografica, per più di tre secoli”, ammonisce Prodi. Una lezione da tener presente nel completamento del disegno europeo. Anche perché “aver succhiato col latte il concetto di nazione non basta più per confrontarsi con il mondo e con i cambiamenti di forza nei rapporti politici”. Quanto ha pesato infatti l’Europa in Iraq o in Libia? Quanto pesa oggi in Medio Oriente? Tempo dieci anni, al mondo ci sarà spazio per tre o quattro protagonisti. E con due posti già occupati da Cina e Stati Uniti, non c’è tempo da perdere.

Inutile poi guardare al passato come a un rifugio sicuro. “Ci ha lasciato due guerre mondiali. Ancor oggi scrivere un libro di storia per gli studenti, che usi le stesse parole per francesi e tedeschi, risulta un dramma”, conclude. Eppure, messi di fronte al bivio tra ‘museo’ e ‘laboratorio’, gli europei sceglieranno davvero il futuro?

Carlo Calore

Romano Prodi è intervenuto il 21 gennaio alla conferenza "Dove va l'Europa?" in occasione dei 180 anni dalla fondazione della Giovine Europa di Giuseppe Mazzini

POTREBBE INTERESSARTI

© 2018 Università di Padova
Tutti i diritti riservati P.I. 00742430283 C.F. 80006480281
Registrazione presso il Tribunale di Padova n. 2097/2012 del 18 giugno 2012