SOCIETÀ
La politica polarizzata dell'Europa: gli ultimi casi di Polonia e Paesi Bassi

Il neo presidente eletto Karol Nawrocki. Foto: Reuters
Quanto accaduto la scorsa settimana in Polonia, con il ballottaggio presidenziale vinto d’un soffio dal candidato sovranista e filo-trumpiano Karol Nawrocki, è l’esatta fotografia della profonda polarizzazione che sta attraversando ovunque la politica, e non soltanto in Europa. Si può osservare nei Paesi Bassi, dove l’estrema destra di Geert Wilders ha appena tolto il sostegno al governo di cui faceva parte (accusato di tenere una linea troppo “morbida” verso i migranti), spianando la strada verso elezioni anticipate ad alto rischio; per non dire della Germania, dove l’ascesa di Alternative für Deutschland è stata finora contenuta dal “cordone” alzato dal cancelliere Friedrich Merz; oppure della Francia, dove il Rassemblement National di Marine Le Pen, nonostante la sua ineleggibilità alle elezioni presidenziali del 2027, resta in testa ai sondaggi con un solido 31%. In Polonia la divisione del campo era netta: da un lato c’era la piattaforma progressista e pro-UE rappresentata dal sindaco di Varsavia Rafał Trzaskowski, che nella sua agenda proponeva, in sintonia con l’attuale premier Donald Tusk, l’attuazione di una serie di riforme liberali, l’espansione dei diritti civili e una maggiore integrazione nell’Unione Europea. Dall’altro c’era, appunto, Nawrocki: un candidato ultraconservatore e nazionalista, un “non politico” senza alcuna preparazione o competenza specifica,dal passato tutt’altro che limpido, radicato nella difesa dei valori tradizionali e nello scetticismo nei confronti degli organismi sovranazionali che tendono a “intromettersi” nelle questioni interne, espressione perfetta di quel populismo globale di destra che tanto successo sta ottenendo in ogni angolo del mondo. Due visioni diametralmente opposte di futuro: confini alti o bassi, diffidenza o fiducia, arroccamento o progresso, nel rispetto o meno dei diritti. La vittoria di Nawrocki (con il 50,9% dei voti, contro il 49,1 del suo sfidante), un ex pugile di 42 anni che ha lavorato in passato come guardia di sicurezza in un albergo, peraltro accusato di aver gestito in passato un giro di prostituzione e di avere legami con la malavita locale (ma per la sua base queste caratteristiche sono una “garanzia di autenticità” contro le élite politiche), acceso fan di Donald Trump (in campagna elettorale ha perfino usato lo slogan “Make Poland great again”), non è certo una buona notizia per Donald Tusk, che nell’ottobre del 2023 era riuscito a soffiare la guida del governo ai sovranisti-populisti di PiS (Diritto e Giustizia, in polacco Prawo i Sprawiedliwość) che dal 2015 avevano governato calpestando sistematicamente lo stato di diritto (ignorando a più riprese gli “avvertimenti” dell’Unione Europea), introducendo una delle più severe legislazioni sull’aborto, minando l’indipendenza della magistratura e della stampa, fomentando l’ossessione contro i migranti. Anche nel 2023 i sovranisti erano arrivati primi alle elezioni, ma non erano stati in grado di trovare alleati per formare un nuovo esecutivo. Ora la vittoria di Nawrocki suona come un avvertimento per il governo Tusk, un “cartellino giallo” per non aver saputo o potuto (il presidente ha un consistente potere di veto: e l’uscente, Andrzej Duda, in carica fino al prossimo 6 agosto, era un fedelissimo di PiS) portare a compimento tutte le promesse fatte in campagna elettorale: una su tutte: l’attenuazione della rigida legge anti-aborto. Un recente sondaggio mostrava che il 51% dei polacchi aveva una valutazione negativa dell’operato del governo, mentre a favore si era schierato il 39% degli intervistati.
Il rischio del “veto sistematico”
Quindi ora per Tusk la strada si fa ancor più in salita, a capo di una coalizione piuttosto eterogenea e su diverse questioni tutt’altro che unita. Mentre i sovranisti, ringalluzziti dal pur esiguo risultato elettorale (balla un solo punto percentuale, pari a circa 400mila voti, ma fa tutta la differenza), hanno nuovamente l’occasione di contare di più. Si prefigura una stagione di mediazioni, o magari di scontri. Il governo polacco, per superare i veti presidenziali, avrebbe bisogno di una maggioranza di 3/5 in Parlamento: e quei i numeri, al momento, non ci sono. Nawrocki potrebbe ostacolare sistematicamente l’azione del governo, anche soltanto per rimarcare il “peso” dei nazionalisti. E c’è comunque da considerare che il probabile stallo potrebbe innervosire gli alleati di Tusk (Coalizione Civica, Polonia 2050, Partito Popolare Polacco e La Sinistra): in caso di spaccatura nella maggioranza, la via delle elezioni anticipate sarebbe la più probabile. A quel punto sarebbe di nuovo una sfida a due, sostanzialmente tra centristi-europeisti e populisti di estrema destra. E non è da escludere che l’insoddisfazione e l’impazienza dell’opinione pubblica possa nuovamente far pendere l’ago della bilancia verso i sovranisti. Nawrocki ha già annunciato che lavorerà per rendere la Polonia “un paese normale”: contro il federalismo dell’Unione Europea, contro la politica climatica, contro l’opzione di garantire maggiori diritti alle persone LGBTQ+, contro l’allentamento della severa legislazione sull’aborto. Sembra di leggere l’agenda di Donald Trump, che anche in questa occasione non ha fatto mancare il sostegno al candidato populista, come sta accadendo regolarmente ogni qual volta si vota in Europa (in Romania, recentemente, senza successo), con l’obiettivo di contrastare o indebolire in ogni modo la coesione dell’UE.
Ma è anche sulla politica estera che l’elezione di Nawrocki potrebbe avere conseguenze. Sul ruolo chiave della Polonia come cerniera più a est dell’Alleanza Atlantica non ci sono dubbi. Secondo un recente focuspubblicato dal sito d’informazione indipendente Novaya Gazeta Europe, con sede in Lettonia, “…negli ultimi tre anni la Polonia ha speso più di tutti gli altri membri della NATO, quasi il 5% del suo PIL per la difesa. Ora ha il terzo esercito più grande della NATO, dopo gli Stati Uniti e la Turchia, e prevede di raddoppiare il numero del personale militare entro il 2027”. Il neo presidente polacco sostiene l’Ucraina contro l’invasione russa, ma è fermamente contrario all’ingresso di Kiev nell’Alleanza Atlantica, e potrebbe alla lunga affievolire l’enorme sforzo compiuto finora dalla Polonia sull’accoglienza dei rifugiati ucraini (quasi due milioni di persone, dal 2022), ma con riflessi sociali negativi che cominciano a farsi sentire. Tutto lascia presumere che la Polonia diventerà presto una briscola in mano a Trump: di fatto, una succursale della Casa Bianca.
L’azzardo sovranista di Wilders
Nei Paesi Bassi sta invece accadendo qualcosa di diverso: il deputato populista di estrema destra, Geert Wilders, che con il suo Partito per la Libertà (PVV) aveva vinto le elezioni del novembre 2023, ha deciso improvvisamente di ritirare il sostegno al governo del quale faceva parte, come forza principale, e di aprire quindi una crisi che non potrà essere risolta, se non con elezioni anticipate (probabilmente in autunno). Il che lascia i Paesi Bassi con un governo di transizione a gestire il summit della NATO del 24-25 giugno all’Aia, nel quale dovrebbero essere decisi i nuovi obiettivi di spese militari in proporzione al Pil nazionale(dall’attuale 2% si potrebbe passare almeno al 3,5%, con l’aggiunta di un ulteriore 1,5% per infrastrutture e sicurezza informatica). Una mossa brusca, drastica, “un azzardo” come molti analisti l’hanno giudicata, che come motivazione di facciata ha l’inazione dell’esecutivo sul tema dell’immigrazione. Wilders pretendeva una fermezza, una “linea dura” (“Ci siamo finalmente tolti i guanti”, aveva dichiarato), che il resto della coalizione conservatrice (con i liberal-conservatori dell’ex premier Mark Rutte, il Nuovo Contratto Sociale di centro-destra e i populisti agrari del Movimento Civico Contadino) non era disposta a concedere. Inutile la mediazione tentata dal primo ministro Dick Schoof che ha poi, di conseguenza, presentato le sue dimissioni definendo la scelta di Wilders “irresponsabile e non necessaria”. Lunedì scorso Wilders aveva presentato un piano in 10 punti per un’ulteriore stretta sull’immigrazione irregolare (impiego dell’esercito per chiudere le frontiere ai richiedenti asilo, stop ai ricongiungimenti familiari, espulsione degli esuli siriani, fine della costruzione di centri di accoglienza, espulsione immediata dei criminali nati all'estero, anche quelli con cittadinanza olandese), lanciando un ultimatum agli altri esponenti dell’esecutivo: “Se non succede nulla, o non succede abbastanza, noi usciamo”. E così è stato. Il leader dell’estrema destra ha poi commentato, quasi a giustificare la sua mossa: “Il Pvv ha promesso agli elettori la politica di asilo più severa mai vista e non la rovina dei Paesi Bassi”. E in una successiva intervista rilasciata alla tv australiana SBS News ha confessato la sua ambizione: “La prossima volta diventerò io Primo Ministro dei Paesi Bassi”. Dunque un calcolo preciso, giustificabile tuttavia anche con il drastico crollo dei consensi registrato dal suo PVV (in olandese Partij voor de Vrijheid) nell’ultimo anno: dal 29 al 20%. Come se Wilders avesse capito che era diventato indispensabile tornare a mostrare la più netta intransigenza nel tentativo di recuperare i “suoi” elettori. Ma c’è anche chi esulta per la sua decisione di far cadere il governo. Come Frans Timmermans, ex capo della Commissione europea per il clima che ora è alla guida del gruppo Verdi-Laburisti, il principale blocco di opposizione nel Parlamento dei Paesi Bassi: “Penso che sia un’opportunità per tutti i partiti democratici di liberarsi degli estremisti, perché è chiaro che con gli estremi non si può governare. Quando le cose si fanno difficili, scappano. La gente è stufa, c’è bisogno di fare un po’ di pulizia”. E così si torna di nuovo alla casella di partenza: allo scontro tra due blocchi radicalmente contrapposti. Da un lato una piattaforma progressista e pro-UE, dall’altro un populismo radicale di estrema destra, contro gli immigrati, contro le “ingerenze” dell’Unione Europea: indovinate da quale parte si schiererà Donald Trump.