
Il neo-eletto presidente della Romania, Nicusor Dan. Foto: Reuters
Al frammentato puzzle politico dell’Europa, traumatizzato negli ultimi anni dalla brusca ascesa dei movimenti legati all’estremismo di destra, si sono aggiunti recentemente altri tre tasselli, di segno opposto ma comunque di enorme rilevanza, che restituiscono un quadro d’insieme più leggibile e definito. Il più importante arriva dalla Romania, dove il candidato pro-Europa, il conservatore Nicușor Dan, ex sindaco di Bucarest, è riuscito a ribaltare al ballottaggio l’esito del primo turno di voto, superando il candidato dell’ultradestra, il filo-russo George Simion (che lo scorso 4 maggio aveva incassato il doppio dei voti) e a diventare così il nuovo presidente della Romania. Ma non è meno clamoroso il segnale che arriva dal Portogallo, per anni considerato uno degli argini più solidi d’Europa di fronte al dilagare delle destre populiste. La nuova tornata delle elezioni parlamentari (la terza in tre anni, sintomo di un’instabilità che rischia di diventare cronica) ha confermato la maggioranza relativa all’Alleanza Democratica di centro-destra, ma con un netto incremento di preferenze per l’estrema destra di Chega, che può ora contare su 58 seggi al Parlamento (6 anni fa, quando fece la sua comparsa per la prima volta alle elezioni, ne ottenne appena 1), lo stesso numero dei socialisti, ormai in caduta libera. Il primo ministro uscente, Luís Montenegro, dovrà necessariamente trovare una “stampella” per riuscire a formare il prossimo governo: il timore è che possa lasciare socchiusa la porta proprio agli estremisti di Chega. Infine la Polonia, dove s’è svolto domenica scorsa il primo turno delle elezioni presidenziali. La corsa sarà decisa al ballottaggio del prossimo 1° giugno, con due candidati che partono praticamente appaiati. Un filo più avanti il sindaco centrista di Varsavia, sostenuto dal premier Donald Tusk, Rafał Trzaskowski (che i sondaggi davano ben più avanti nelle preferenze), tallonato dal candidato del partito PiS (populisti di estrema destra), Karol Nawrocki. Inutile sottolineare che in ballo c’è moltissimo: il prossimo voto determinerà la traiettoria futura non soltanto della Polonia, ma dell’intera Unione Europea e perfino della NATO.
Un nuovo argine pro-democrazia
Quello della Romania è senza dubbio un risultato clamoroso, raggiunto sulla spinta di una straordinaria partecipazione degli elettori più giovani. Come ha spiegato il vicepresidente del Parlamento europeo Nicu Ștefănuță, eurodeputato del gruppo Verdi/ALE, interpellato dalla fondazione politica tedesca Heinrich-Böll-Stiftung: “I rumeni hanno dimostrato di rimanere fortemente impegnati nei valori europei e di rifiutare le narrazioni ultranazionaliste ed euroscettiche. L’affluenza record alle urne del 64,7% (11,64 milioni), in aumento rispetto al 53,2% (9,57 milioni) del primo turno, ci ha mostrato un’impennata dell'impegno democratico in un momento critico, in particolare tra i giovani e gli elettori della diaspora. Oltre 2,5 milioni di giovani (tra i 18 e i 34 anni) hanno votato, il numero più alto nella memoria recente, con quasi mezzo milione di votanti dall’estero. Questa mobilitazione senza precedenti rivela l’urgenza civica di proteggere la democrazia, lo Stato di diritto e il posto della Romania nell’Unione europea. La vittoria di Nicușor Dan non è soltanto una scelta politica, ma una dichiarazione generazionale”.
Ed è un segnale anche per il Cremlino, che stando a quanto stabilito dalla Corte Costituzionale rumena (che aveva annullato la tornata elettorale dello scorso dicembre), aveva tentato in ogni modo, anche illecito, d’influenzare e condizionare il voto attraverso decine di migliaia di account TikTok, tutti coordinati nell’alimentare sfiducia e a diffondere narrazioni anti-occidentali, e di pari passo a sostenere la candidatura dell’ultranazionalista e filo-russo Calin Georgescu, a cui Simion aveva promesso, in caso di elezione, il ruolo di primo ministro. Una colossale campagna di disinformazione, basata principalmente sulla “notizia” di una guerra imminente della Russia con la Nato (un’azione paragonabile a un tentativo di colpo di stato) Simion era certo di farcela: e a suo favore si erano schierati gli “ultras” del nazionalismo euro-scettico europeo, dall’ungherese Viktor Orbàn al presidente slovacco Robert Fico. Simion, peraltro, in campagna elettorale aveva promesso di “melonizzare l’Europa”, rimarcando così la sua sintonia con la prima ministra italiana, che la scorsa settimana l’aveva ricevuto a Roma, nella sede del suo partito. Simion, peraltro, non ha preso bene la sconfitta: a scrutinio in corso s’era affrettato a proclamarsi vincitore, salvo poi essere costretto alla marcia indietro. Poi, a conteggio concluso, ha annunciato di voler presentare ricorso alla Corte Costituzionale per annullare le elezioni, adducendo presunte “interferenze esterne” da parte della Francia: tentativo che appare assai velleitario. Secondo l’organizzazione di ricerca sulle politiche pubbliche apartitica e senza scopo di lucro, Robert Lansing Institute, il successo di Nicușor Dan alle elezioni rumene è “una vittoria storica non solo per la governance democratica, ma anche per la più ampia alleanza occidentale nella sua continua lotta contro l'influenza russa. Mentre il Cremlino ricalibra le sue tattiche, la Romania si pone come un baluardo resiliente sul fianco orientale della NATO e un modello per altre nazioni che affrontano minacce simili alla loro sovranità e democrazia”.
Una scossa al sistema portoghese
Se dunque la Romania s’è improvvisamente trasformata in argine per la democrazia, il Portogallo sembra invece aver ormai perso il suo ruolo “storico” in difesa dei valori socialisti e progressisti, ricoperto negli ultimi cinquant’anni, dalla Rivoluzione dei Garofani in poi, che segnò la fine della dittatura di destra di Antonio Salazar, nel 1974. Ma oggi l’affermazione sonora degli estremisti di Chega (22,6%) non può essere considerata una sorpresa: piuttosto un trend in ascesa, che va in sincrono con il progressivo ridimensionamento del Partito Socialista, arrivato a toccare il 23,4%, il peggior risultato dal 1987. Le coalizioni moderate non funzionano più: non c’è più fiducia, non c’è più ”proposta”. E André Ventura, leader di Chega, anche lui grande amico di Meloni & Co., è stato abile a colmare questo “vuoto politico”, cavalcando il malcontento dell’elettorato di fronte all’inflazione in continua crescita, puntando il dito contro la corruzione delle élite politiche tradizionali e proponendosi come portavoce dei conservatori più nazionalisti, radicalmente contrari all’immigrazione di massa, in difesa dei valori cristiani e del ripristino della “sovranità portoghese” nei confronti delle imposizioni di Bruxelles. “È una giornata storica per il Portogallo, abbiamo dato una scossa al sistema”, ha esultato Pedro Pinto, deputato di Chega. “Noi oggi siamo diventati un’alternativa di governo. E siamo pronti al dialogo”. Il deputato di Chega ha ragione: alla luce dei risultati alle urne, l’Alleanza Democratica di Luís Montenegro ha bisogno di alleati. AD ha 89 seggi, Socialisti e Chega 58 ciascuno (gli altri partiti 20). Per ottenere la maggioranza minima all’Assemblea Nazionale, composta da 230 seggi, Montenegro ha bisogno di raccogliere il sostegno di almeno altri 27 deputati. Nei prossimi giorni si capirà in quale direzione intende muoversi il primo ministro: se stringerà un’alleanza con Chega (e questo sì sarebbe un terremoto nella politica portoghese, visto che alle ultime elezioni aveva platealmente rifiutato l’appoggio degli estremisti) o se tenterà di proseguire con un governo di minoranza: scelta, quest’ultima, che lascerebbe la politica portoghese in una permanente condizione di instabilità. Secondo il politologo portoghese Riccardo Marchi, ricercatore dell’Istituto Universitario di Lisbona (ISCTE), “…se Luís Montenegro cercherà di trovare accordi a sinistra, sarà il miglior assist per un’ulteriore futura crescita di Chega”.
Il terzo tassello è quello della Polonia: ma per definirlo nei dettagli bisognerà aspettare l’1 giugno, quando saranno resi noti gli esiti del ballottaggio. Anche in questo caso la polarizzazione è netta: da un lato gli europeisti “fedeli” all’attuale premier Tusk, che schierano il politologo Rafał Trzaskowski; dall’altra i sovranisti-populisti di Diritto e Giustizia (PiS), con il candidato Karol Nawrocki, un conservatore di ferro, che punta a intercettare al secondo turno anche i voti degli altri candidati di destra. E i numeri potrebbero dargli ragione, come ha spiegato a Politico Piotr Buras, senior policy fellow presso l’European Council on Foreign Relations: “I candidati di destra e di estrema destra hanno ottenuto il 54% dei voti al primo turno. E dunque Nawrocki avrà un bacino di voti più ampio a cui attingere”. Più complicato, sulla carta, il compito di Trzaskowski: è legato a doppio filo con il premier Donald Tusk che, dopo aver detronizzato nel 2023 i sovranisti di PiS, non è stato finora in grado di mantenere tutte le promesse del suo governo di coalizione (su tutte l’allentamento delle severissime leggi che limitano il diritto all’aborto). Il governo di Tusk incolpa il presidente uscente Andrzej Duda, espressione del PiS, di aver bloccato la sua agenda. Ma la “delusione” dell’elettorato, per un’azione ritenuta non sufficientemente incisiva, potrebbe danneggiare il candidato europeista.
La geografia del populismo
Perché siamo alle solite: le destre, anche le più estreme, s’insinuano proprio lì: tra le pieghe della frustrazione degli elettori. Nella stanchezza di vedersi rappresentati da esponenti politici e da partiti che ignorano i bisogni primari dei cittadini. Che non riescono a trovare soluzioni ai problemi economici. Che giocano con le promesse senza riuscire a mantenerle. Nascono così i voti di protesta, di rottura, le “spallate contro il sistema”. Così si alimentano i populismi, che ovviamente non riguardano soltanto l’Europa (Stati Uniti e Argentina sono gli esempi più eclatanti). Secondo Maria Skóra, ricercatrice presso il centro studi tedesco Das Progressive Zentrum, la radice della diffusione del populismo è nelle disparità regionali, tra chi vive in città e chi abita le aree rurali: “Il malcontento politico - sostiene la ricercatrice in un intervento pubblicato sull’IPS Journal - è direttamente collegato agli standard di vita locali. Le aree rurali e le città post-industriali hanno subito lo spopolamento a causa delle trasformazioni passate. Coloro che vivono in regioni strutturalmente deboli e in città disfunzionali sono stufi di strade dissestate, mancanza di accesso a un’assistenza sanitaria a prezzi accessibili o scuole fatiscenti. A volte la sensazione di essere lasciati indietro porta alla nostalgia, all'isolamento e all'intolleranza, invece di abbracciare nuove idee, persone e opportunità. La “geografia del malcontento” e il divario urbano-rurale si stanno insinuando negli Stati Uniti e in Europa”.