UNIVERSITÀ E SCUOLA

Publish or perish, all'italiana /2

Siamo ormai a fine marzo 2014 e ancora non è del tutto conclusa la prima tornata delle abilitazioni nazionali, quella del 2012. Avrebbe dovuto concludersi a giugno 2013. E ovviamente si parla già di un rinvio dei termini della seconda tornata, quella del 2013, che avrebbe dovuto concludersi entro il 31 marzo del 2014. 

Frutto della riforma cosiddetta “Gelmini” (legge 240 del 2010), la nuova modalità di reclutamento dei professori universitari, di prima fascia (ordinario) e di seconda fascia (associato), prevede il superamento di due prove: prima il conseguimento dell’abilitazione nazionale e poi, per gli abilitati, il superamento dei concorsi locali. La storia del reclutamento dei professori universitari in Italia racconta di continue sperimentazioni di tutte le possibili modalità, ottenibili da varie combinazioni dei seguenti principali elementi: concorsi nazionali a numero aperto o programmato, concorsi locali con più idonei o con un solo idoneo, commissioni elette o sorteggiate, fatte solo di professori italiani o di italiani e stranieri. Ogni nuova sperimentazione è stata, dagli anni Ottanta in poi, avviata senza mai mandare a regime la precedente modalità. E tra una sperimentazione e l’altra sono sempre passati anni di blocco del reclutamento, con l’inevitabile conseguenza che, non appena si avviava una nuova fase di concorsi, i numeri dei concorrenti erano altissimi e difficilmente gestibili in modo corretto. Questo è regolarmente successo anche nell’abilitazione nazionale del 2012, dopo che dal 2008 erano stati sospesi i concorsi per l’accesso ai ruoli di professore di prima e seconda fascia.

L’impianto dell’abilitazione nazionale disegnata dalla legge 240 è piena di difetti. Il più grave di tutti è la pretesa di introdurre un metodo “oggettivo” di valutazione, che come tale dovrebbe potersi realizzare in modo quasi automatico, senza l’intervento dei “baroni”. Inevitabile allora utilizzare parametri bibliometrici meramente quantitativi e marginalizzare quelli qualitativi. Si noti che a giustificazione di questo tipo di intervento è stata usata ad arte l’amplificazione data dai mezzi di informazione a casi di malcostume avvenuti nel reclutamento universitario, esecrabili ma certamente non generalizzabili a tutta l’università italiana. Questa sorta di commissariamento algoritmico della comunità universitaria, insieme alla scelta provinciale di chiamare a far parte delle commissioni anche studiosi stranieri (come se la provenienza da fuori Italia fosse di per sé garanzia di oggettività e purezza), non ha sortito quegli effetti palingenetici che qualcuno prometteva. Vale la pena osservare, tra l’altro, che la scelta, lo ripetiamo, provinciale di avere un commissario estero non esiste in nessun Paese, dove invece è diffusa la pratica di avere lettere di presentazione (o raccomandazione del tutto trasparente) da parte di autorevoli studiosi della comunità scientifica di riferimento (solitamente internazionale).

Ciò premesso, il fatto che le abilitazioni nazionali si tengano può anche essere una cosa positiva, se non altro perché permette di fissare una soglia minima di lavoro documentabile svolto dal candidato, soglia che in alcuni casi, prima della legge 240, era stata completamente trascurata. Vale tuttavia la pena notare che questa soglia avrebbe potuto essere introdotta anche nella forma concorsuale precedente. I problemi maggiori si sono evidenziati al momento dell’effettiva messa in atto delle abilitazioni. Esse, infatti, si sono tenute con criteri e tempi non certi, continuamente cambiati in corso d’opera. Inoltre si sono svolte in un periodo in cui, tra blocco del turn over e flessione dei finanziamenti, le possibilità di reclutamento degli abilitati nei prossimi 4 anni (tanti dura l’abilitazione) sembrano assai esigue. Un problema, questo, particolarmente grave per gli aspiranti alla prima fascia, stante i vincoli di legge e i finanziamenti: non avendo, infatti, fissato un numero massimo, gli abilitati della sola prima tornata sono almeno dieci volte di più dei posti che ragionevolmente potranno essere disponibili nei prossimi anni. Per esempio, nell’ateneo patavino che pure è uno dei più virtuosi d’Italia, stante i vincoli di legge si potranno al più reclutare una trentina di ordinari, più o meno uno per Dipartimento.

A questi problemi se ne aggiungono altri. In particolare, quello della grande difformità di comportamento delle commissioni. Queste sono composte da cinque membri che hanno dovuto decidere le abilitazioni di centinaia (se non migliaia) di candidati in pochi mesi, lavorando in mezzo a molte incertezze. Alla fine della prima tornata, a seconda delle commissioni, si sono avute percentuali di abilitati assai diverse: si va dal 90% di alcuni settori al 20-30% di altri. Un fatto che, dall’analisi dei risultati, non sembra riconducibile alle disparità di qualificazione dei candidati nei diversi settori disciplinari. Contano di più almeno altri tre aspetti. Il primo è relativo alle fluttuazioni negli indirizzi generali delle commissioni: alcune, infatti, hanno deciso di abilitare chiunque superasse una soglia minima, considerato che saranno poi gli atenei a scegliere chi reclutare con i loro concorsi locali, mentre altre si sono orientate in modo diverso. Il secondo aspetto riguarda quanto hanno pesato i calcoli legati alle effettive disponibilità di posti nei prossimi anni nei vari Dipartimenti, caso mai privilegiando proprio i settori a cui appartengono i commissari: insomma, alcune commissioni hanno finito per introdurre arbitrariamente una sorta di limite massimo al numero di abilitati, mentre altre no. Infine candidati in settori interdisciplinari, settori trascurati dal legislatore, sono stati trattati in maniera totalmente diversa da commissione a commissione: alcune hanno considerato la loro produzione sulla base dei parametri quantitativi dominanti nel settore concorsuale, che finivano per penalizzarli indiscriminatamente; altre invece li hanno trattati più correttamente in modo differenziato. Il risultato è che candidati non abilitati in un settore, avrebbero potuto conseguire l’abilitazione se avessero presentato domanda in altro settore concorsuale. E viceversa.

L’esito nel complesso è sconfortante, e aggravato anche dal crescente numero di ricorsi. E così, coloro che una volta, avendo conseguito una libera docenza, un’abilitazione o un’idoneità, si salutavano complimentandosi, oggi invece incontrandosi si dicono “meglio averla che non averla”. È deleterio aver creato legittime aspettative apparentemente senza speranza. Ma più deleterio ancora a questo punto, se non per i singoli sicuramente per l’università italiana, sarebbe interrompere nuovamente anche questa forma di reclutamento, come vorrebbe la nuova ministra, Stefania Giannini. Invece di introdurre correttivi nel discutibile sistema appena avviato, la sua interruzione aprirebbe nuovamente una fase di stallo del reclutamento. Sarebbe la premessa dell’ennesima immissione in ruolo ope legis di tutti gli abilitati, che ancora una volta penalizzerebbe una o più generazioni di giovani studiosi.

Giulio Peruzzi

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