SOCIETÀ

Schizofrenia: quando una vita normale è possibile

È possibile per chi soffre di schizofrenia avere una vita “normale”? Trovare un lavoro e costruirsi una famiglia? Secondo Elyn R. Saks sì. Docente di Legge e psichiatria alla Southern California, si divide tra lavoro e vita privata. Una donna affermata come ce ne sono molte. Se non fosse per una diagnosi di schizofrenia, da bambina, con cui tuttora convive. Ne parla in un libro, The center cannot hold: my journey through madness. Ciò che la docente sostiene, di recente anche sul New York Times, è la possibilità per un malato di schizofrenia di affermarsi socialmente. Porta la sua esperienza e quella di altre persone su cui ha condotto una ricerca. Tra questi medici, avvocati, manager. Crede in un approccio che guardi alle potenzialità dell’individuo oltre che ai sintomi, che incoraggi le relazioni sociali e l’inserimento nel mondo del lavoro.

“La schizofrenia – spiega Paolo Santonastaso, docente di Psichiatria all’università di Padova – è una malattia che si manifesta in ugual misura nei paesi sviluppati e in via di sviluppo e interessa l’1% della popolazione generale. Può avere un esordio acuto ed esplodere nel giro di pochi giorni con allucinazioni, deliri, agitazione o comparire gradualmente, con un progressivo ritiro sociale nell’adolescenza o nella prima età adulta. Mentre il decorso della malattia è migliore nel primo caso, nel secondo è più subdolo, perché i primi sintomi sono difficilmente distinguibili rispetto a una "normale" crisi adolescenziale”. Nei paesi in via di sviluppo la malattia si manifesta più frequentemente con esordio acuto e ha una prognosi migliore, probabilmente per una maggiore accettazione sociale. Fattore di non secondaria importanza. “Per i pazienti – continua – la possibilità di trovare una collocazione professionale non è alta: solo il 20% ha un lavoro. Per quel 20%, tuttavia, è un elemento determinante sia dal punto di vista terapeutico che per il decorso della malattia”. A parità di sintomi, infatti, i pazienti che hanno un lavoro e il sostegno della famiglia, hanno una prognosi migliore.  

La cura prevede, oltre ai farmaci, tecniche di tipo comportamentale-cognitivo, di cui parla la stessa Elyn Saks, procedure di riabilitazione attraverso strutture residenziali, semiresidenziali o ambulatoriali per “organizzare” la giornata del paziente che non deve mai essere vuota, ma comprendere anche momenti di vita sociale. Si tratta di tecniche che, unite al supporto della famiglia, condizionano in maniera positiva il decorso della malattia, soprattutto se avviate agli esordi. Altrettanto rilevante, accanto alla riabilitazione clinica, la riabilitazione lavorativa, con correnti di pensiero diverse. Secondo alcuni il paziente va avviato gradualmente a una attività lavorativa in un ambiente protetto e controllato: solo in un secondo momento potrà avvicinarsi ad ambienti meno protetti. Un’altra tesi ritiene invece preferibile inserire fin da subito la persona in un ambiente lavorativo competitivo in cui non vi siano altri casi di schizofrenia. Naturalmente valutando le caratteristiche e le preferenze del paziente, quali ad esempio la predisposizione a lavorare da soli o in gruppo. Gli studi dimostrano che questo tipo di approccio, che prevede ovviamente un supporto esterno, un “social skill training”, sia più efficace e permetta risultati migliori in termini di mantenimento dell’impiego a lungo termine.

Esistono aziende come la Specialisterne, in Danimarca, e molte altre ne stanno seguendo le orme anche attraverso specifiche fondazioni, che assumono adulti autistici per alcune loro specifiche abilità, tra cui la memoria e la particolare attitudine ai lavori di precisione. “Considerare le potenzialità del paziente oltre ai sintomi – continua Santonastaso – è l’approccio più corretto, ma qualche precisazione va fatta. Nel 50% delle persone con diagnosi di schizofrenia non vi sono deficit intellettivi: nei pazienti intellettualmente molto dotati, la schizofrenia non “ammazza” l’intelligenza. Nell’altro 50% possono essere presenti deficit cognitivi specifici, come ad esempio una compromissione della memoria di lavoro, un tipo di memoria “automatica” che ci consente di memorizzare le procedure necessarie per svolgere un compito. In alcune persone questi deficit si manifestano dopo l’esordio, in altre sono presenti già prima della malattia”.

Lavoro, famiglia e interazione con gli altri sono, dunque, fattori determinanti per il decorso di patologie come la schizofrenia. Accanto all’accettazione da parte della società che troppo spesso ha relegato la malattia mentale nel generico calderone di “follia”.

Monica Panetto

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