CULTURA

Si può vivere offline. Nelle foreste siberiane

Che la Russia, anche dopo il distacco delle repubbliche di cui si componeva l'Unione Sovietica, sia il paese più vasto della terra, è un dato che in occidente si tende a dimenticare, o per lo meno a sottovalutare. Eppure, varrebbe la pena di osservare più da vicino il rapporto che i russi hanno con la natura (priroda) e in genere con lo spazio (prostranstvo), se non altro perché ha ben poco a che fare con l'esperienza di chi vive in un paese come l'Italia, dove i centri abitati si susseguono sovente senza soluzione di continuità e un denso reticolato di segnali indica ovunque l'opera della mano umana.

Per quanto a volte possa apparire dura, addirittura matrigna, la natura da noi è un'entità con la quale ci si confronta con un senso, per così dire, di padronanza (tranne scoprire, di frana in alluvione in terremoto, che non è così). Ben diversa è la situazione in Russia, dove basta uscire di pochi chilometri dalle città per ritrovarsi immersi dentro fondali - pianure a perdita d'occhio o foreste fittissime – nei quali l'essere umano, l'individuo, si sente ed è solo un minuscolo granello di vita all'interno di un universo pulsante su cui ha ben poca presa. È, questo, un fattore che, unito a condizioni climatiche e ambientali estreme (la gelida oscurità dell'inverno, le lunghe e luminose giornate estive) ha influito fortemente sulla storia e sulla costruzione dell'immaginario collettivo russo. Ed è ancora, probabilmente, questa situazione per noi tanto inconsueta, ad avere spinto lo scrittore francese Sylvain Tesson a trascorrere sei mesi, dal febbraio al luglio 2010, isolato in una capanna sulle rive del lago Bajkal, esperienza poi travasata nelle pagine di un libro che ha vinto nel 2011 il premio Médicis in Francia ed è stato ora pubblicato da Sellerio (Nelle foreste siberiane, traduzione di Roberta Ferrara).

Costruito come un diario, lungo il susseguirsi dei giorni, il testo è di fatto qualcosa di più e qualcosa di meno rispetto al semplice resoconto di una esperienza inconsueta. Di meno, perché – sebbene Tesson, come lui stesso ci dice, passi gran parte del suo tempo a riempire taccuini su taccuini - non tutto ci viene raccontato e diverse giornate si traducono in poche frasi. Di più, perché il quaderno di bordo di questo contemporaneo eremitaggio è insieme un dialogo a distanza con gli autori che, in un modo o nell'altro, hanno parlato dell'uomo solo davanti alla natura e, anche, una riflessione sui nodi – il consumismo, la crisi, l'ipotesi della decrescita, l'iperconnettività – che caratterizzano la società occidentale.

Quando arriva al Bajkal, Tesson sa quello che lo aspetta. È già stato sul lago profondo che incide, come una sottile lama ricurva, i territori sterminati della taiga siberiana, se n'è innamorato, ha progettato di tornare a vivere, almeno per qualche tempo, sulle sue rive, in una capanna. E tuttavia non sa come reagirà lui stesso a questa lunga solitudine. Una solitudine che, sia pure mitigata dalle visite dei e ai "vicini di casa" (guardie forestali, ingegneri, pescatori, disseminati lungo decine e decine di chilometri), lo costringerà ad avere se stesso, e gli autori dei libri che ha portato con sé, come interlocutori pressoché esclusivi: “Ho raggiunto lo scopo della mia vita. Finalmente saprò se ho una vita interiore”, annota il 14 febbraio, dopo avere elencato puntigliosamente i titoli dei libri che ha portato con sé (una sessantina,  dalla Filosofia nel boudoir di Sade alle Fantasticherie del passeggiatore solitario di Rousseau, da Foglie d'erba di Whitman all'ovviamente immancabile Robinson Crusoe).

“È bello sapere che da qualche parte in una foresta c'è una capanna dove è possibile qualcosa di non troppo distante dalla gioia di vivere”, scriverà il 26 luglio, alla vigilia del suo ritorno in Francia. La prova è dunque stata superata, anche a dispetto del fatto che, nei lunghi mesi di semi-isolamento, un'unica volta il telefono satellitare ha rivelato la propria presenza, ed è stato per annunciare a Tesson l'addio della donna amata. Anche in quella occasione, però, lo scrittore – eremita per scelta, ma del tutto avverso a una visione penitenziale dell'esistenza – trova sostegno e sollievo in una adesione totale alla vita e al tempo lento in cui ha deciso di calarsi.

Sono pochi, all'apparenza, gli elementi che riempiono questo tempo: le esplorazioni del territorio in cui si trova la capanna, la pesca, le lunghe letture, la vodka e i sigari, i due cuccioli di cane che gli sono stati affidati. Ma come sempre quando l'orizzonte si restringe, l'occhio si affina: è possibile scoprire cose che stavano sotto il nostro sguardo e ci erano invisibili. Ed è, questo, anche l'esercizio che si impone al lettore di questo libro dove “non succede niente” e tuttavia tanto denso, nella sua semplicità, da imporre una lettura lenta alla quale siamo sempre meno abituati. Un esperimento di eremitaggio in forma di libro, o quasi.

Maria Teresa Carbone

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