CULTURA

Smirne: l’utopia mediterranea

Al sorgere del XX secolo Smirne era una città cosmopolita, luogo d’incontro e di fusione per culture e visioni radicalmente diverse: il quartiere greco – marinaresco, colorato, naïf – perfettamente comunicante con quello europeo, altolocato, raffinato e lussuoso. Uno spartiacque che correva lungo la spina dorsale della parte turca – e i suoi crocchi di persone che pazientemente sedevano sulle soglie delle proprie case disastrate, attorno alle džezve e ai calumé – per fermarsi lì tra gli anfratti dei ghetti ebraici. Ad abbracciarli in un’unica entità il sole accecante del mar Egeo. “Avevo i resoconti, ma non le immagini, distrutte dal fuoco. Ero molto curiosa di vedere come vivesse la gente, come fosse la loro vita”, racconta Maria Ilioú, regista e curatrice di Smyrna: The Destruction of a Cosmopolitan City, smirniota di terza generazione adottata dall’Italia prima – ha studiato a Padova – e dagli Stati Uniti poi.

La città di Smirne viene devastata da un incendio nel settembre del 1922: l’episodio che segna la riconquista turca della città ed è anche l’atto conclusivo della violenta occupazione greca dell'Anatolia iniziata nel 1919. Cancellata ogni eco di questo paradiso di multiculturalità, la Smirne “del dopo” resta segnata dall’odio alimentato dal lungo e controverso conflitto greco-turco, con la morte e la fuga di molta parte della popolazione greca e armena che ne costituiscono solo il tragico epilogo.

Il concetto di “turco”, pur intrinsecamente meticciato con quello di “greco”, diventa così odioso ai greci da spingerli a rinnegare, rifiutare, cancellare ogni sua traccia. Dalla lingua (intere classi di nomi sono state messe in discussione dai grammatici neogreci per la loro “turchità”) ad ogni altro elemento di convivenza sociale e politica. E ci sono gli 1.300.000 greci allontanati dalla Turchia e i 350.000 musulmani cacciati dal suolo greco, a tener vivi i reciproci rancori anche molto dopo la fine della guerra.

Il lavoro di Maria Ilioú si distacca dalla visione delle fazioni in lotta e dà al documentario un taglio marcatamente narrativo. Basato, prima di tutto, sulle impressioni e sui colpi d’occhio visivi dell’epoca. Una lunga e laboriosa ricerca d’archivio – condotta tra Stati Uniti, Canada, Europa  e Medioriente – ha portato alla selezione di immagini e riprese che nel montaggio potessero restituire l’armonia del “prima”, raffigurando il perfetto patchwork della Smirne perduta: città pigra e dinamica, sorridente e indaffarata, popolana e borghese, cristiana e musulmana. Ritornano le folle a passeggio, i porticcioli ricolmi di vita, le variopinte sfumature appena suggerite dal bianco e nero sgranato degli anni Dieci. Prima di diventare campo di battaglia, terreno di conquista, cumulo di macerie, Smirne era questo: il crocevia del Mediterraneo.

Il connubio tra la documentazione storica e le partiture dal sapore folk del musicista Nikos Platyrachos è intervallato dai resoconti dello scrittore  e divulgatore Giles Milton, autore di un volume dedicato alla città dal titolo significativo di Paradise Lost, mentre l’unica testimonianza diretta, resa in un inglese spezzato e commosso, è quella dell’armeno Jack Nalbantian. Così sono gli smirnioti di seconda e terza generazione ad animare le memorie del documentario (o del “film per immagini”, come l’ha definito alla proiezione padovana il critico Giorgio Tinazzi): figli e nipoti di emigrati, gli eredi di una ferita dolorosa. Lontane dal gratuito rancore e dal pregiudizio antiturco, le voci della pellicola sono in realtà punteggiate di timore e dubbio. È sui volti di Victoria Solomonidou e Eleni Bastea che si fa strada la dolorosa consapevolezza di una guerra senza vinti né vincitori. Se, da un lato l’esercito comandato da Atatürk resta il principale indiziato dell’incendio della città e dell’uccisione di decine di migliaia di suoi abitanti, dall’altro emergono le colpe dell’armata greca, per prima impegnata in un’aggressiva offensiva militare durata anni e conclusasi con la sconfitta e l'abbandono della città. Mentre le flotte internazionali assistevano passive agli scontri, salvo, all’occorrenza, allontanarsi in direzione opposta a quella dei disperati fuggitivi.

Nel pieno di un ritorno del nazionalismo europeo, è proprio con alcuni militanti di Chrysi Avgi (Alba Dorata) che Maria Ilioú racconta di aver avuto problemi, durante una proiezione al Benaki Museum di Atene. “Proprio il riemergere del nazionalismo, a contatto con temi così delicati, ci mette di fronte alla nostra stessa storia”, dichiara. “È una sfida per noi tutti”.

Marco Biasio

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