SOCIETÀ

Sorpresa alle europee: il voto fluttuante

Anche questa volta i sondaggi escono sconfitti dal voto: come quest’anno infatti nessun istituto demoscopico aveva previsto il trionfo di Renzi e del Partito Democratico, così lo scorso anno i risultati di Grillo e Berlusconi superarono ogni stima della vigilia. Fra le possibili spiegazioni, l'imporsi nelle ultime tornate elettorali di una modalità di voto in larga parte inedita per il nostro Paese. In entrambe le elezioni, infatti, circa il 40% dell’elettorato ha modificato il proprio comportamento di voto spostandosi fra schieramenti diversi: una tendenza che era già emersa all’indomani delle politiche del 2013 e che viene citata spesso in questi giorni a parziale giustificazione delle previsioni errate. L'Italia, quindi, sta vivendo un livello di mobilità elettorale finora sconosciuto: una situazione che sembra indicare come sempre più italiani, dunque, stiano esprimendo un voto d’opinione, a fronte di una tradizione politica che vedeva il nostro Paese come uno dei capisaldi del voto d’appartenenza. 

Nei primi 60 anni di Repubblica c'era sempre stato non più di un 10% degli italiani circa che da un’elezione all’altra cambiava opinione, e anche l’apparentemente traumatico passaggio tra la prima e la seconda Repubblica non aveva modificato le cose. L’elettorato conservatore che votava la Dc e i suoi alleati di governo aveva trovato in Berlusconi e nella coalizione di centrodestra la sua nuova rappresentanza politica, mentre i voti del Pci erano stati naturalmente ereditati dalle successive trasformazioni dello stesso. Una comparazione tra le mappe elettorali della prima e della seconda Repubblica è emblematica: le zone di maggiore consenso democristiano sono state le stesse dell’alleanza Berlusconi-Lega, mentre l’Italia centrale rimane la roccaforte rossa per eccellenza. La mobilità elettorale è stata sempre bassa fino a tempi recentissimi e non a caso molte rilevazioni dell’eurobarometro hanno assegnato all’Italia il primo posto tra i grandi paesi europei per fedeltà partitica degli elettori. 

Il voto di appartenenza – dalla definizione originale di Talcott Parsons fino alla più recente rielaborazione di Pippa Norris - riflette le caratteristiche sociali del Paese in cui si esprime ed è un voto stabile, di lungo periodo, legato non tanto ai programmi politici dei partiti quanto alle divisioni della struttura sociale e alle subculture in essa presenti. L’individuo compie una scelta valoriale che si esplicita in un’identificazione soggettiva con la propria forza politica, che condivide con il gruppo sociale a cui egli appartiene in un rapporto di identificazione organica. Il voto di opinione viene invece spesso indicato come una caratteristica delle democrazie più sviluppate e si differenzia dal precedente perché variabile nel tempo e strettamente legato ai temi della campagna elettorale e alla personalità dei candidati. 

In letteratura scientifica, il passaggio dal voto d’appartenenza al voto d’opinione viene fatto coincidere con il declino delle ideologie e dei partiti politici. Questi ultimi svolgevano infatti un ruolo di socializzazione dei cittadini alla politica e di strutturazione del voto. L’elettore tendeva a manifestare un forte senso di identificazione con il partito, che votava con costanza senza tener troppo conto della personalità del candidato, dei temi all’ordine del giorno o del programma politico. Le campagne elettorali servivano a riattivare le preferenze di voto espresse in passato e che erano predominanti nel gruppo di solidarietà in cui l’individuo era inserito. La mobilità elettorale in questa situazione dipendeva solamente delle "pressioni incrociate" prodotte dai coinvolgimenti in diversi gruppi di solidarietà, con orientamenti politici contrastanti. 

Il passaggio alla prevalenza del voto d’opinione viene spiegato da teorici della modernizzazione delle campagne elettorali come Blumler e Kavanagh, che hanno definito gli ultimi 30 anni di politica come quelli “della centralità televisiva”, dove i partiti di massa sono stati sostituiti dai mezzi di comunicazione. I media sono diventati la fonte principale di informazioni, occupandosi dell’identificazione, della tematizzazione e dell’attribuzione di rilevanza rispetto alle questioni pubbliche. Si è quindi entrati nella fase delle “campagne moderne” dove i cittadini esprimono il loro voto su questioni di breve-medio periodo, tenendo conto dei programmi e delle caratteristiche dei candidati, che emergono sempre più nella copertura mediatica con relativi effetti di personalizzazione e spettacolarizzazione della politica. È il passaggio dalla “democrazia dei partiti”, dove le opinioni individuali e collettive erano allineate al processo di costruzione dell’opinione promosso dall’intermediazione delle organizzazioni politiche, alla “democrazia del pubblico”, come la definisce Bernard Manin, in cui l’opinione individuale tende ad assumere come punto di riferimento il clima d’opinione generale, in larga parte costruito mediaticamente. Una situazione in cui, come avverte Lakoff, certamente rimangono operanti per una parte considerevole della popolazione i grandi riferimenti valoriali, quelli che in senso lato possono essere definiti "destra" e "sinistra", ma dove il loro tradursi nel voto per una o un'altra specifica forza politica è affidato alla rielaborazione del singolo, al peso – mediatico, prima di tutto - di temi specifici in un dato momento, alla storia personale e alle relazioni, senza che l'identificazione in un partito vi giochi più un ruolo significativo. 

Già negli anni Ottanta il comportamento elettorale cominciava a mutare poiché tendeva a diminuire l’influenza complessiva delle appartenenze tradizionali, anche se le subculture politiche di Dc e Pci che avevano caratterizzato i decenni precedenti rivestivano ancora un ruolo importante. Secondo un’analisi di Sani e Mannheimer del 1987 “il voto di appartenenza conta rispettivamente per circa il 60% della base elettorale democristiana e per il 67% di quello del Partito comunista”. Era però cresciuta la mobilità elettorale: già allora il 40% dell’elettorato poteva essere considerato estraneo a entrambe le subculture e “una quota crescente di elettori votava indipendentemente dall’appartenenza subculturale e sulla base di altri tipi di motivazioni". Nella transizione dal voto d’appartenenza al voto d’opinione c’è poi un’altra variabile che va tenuta in conto: la lenta ma inesorabile erosione della partecipazione elettorale. Ancora nel 1979, l’astensionismo era inferiore al 10%; nel 2013 è stato superiore al 37%, e alle europee di pochi giorni fa ha votato poco più di un italiano su due. Una percentuale che, pur in crescita costante, non comprende sempre gli stessi elettori: sempre più spesso ci sono cittadini che si astengono una volta per poi tornare a votare all’elezione successiva mentre contemporaneamente qualcun altro fa il percorso inverso. 

A ulteriore riprova dell’alta mobilità elettorale vi sono i risultati delle amministrative che in più casi testimoniano non solo il cosiddetto “effetto Renzi”, ma ancor più un crescente ricorso al voto disgiunto, che altro non è che un’ulteriore manifestazione di indipendenza dell’elettore. In una storica roccaforte della sinistra come Livorno, alle europee il Pd ha ottenuto il 53% dei voti, mentre alle comunali si è fermato al 35%, costringendo la città al ballottaggio. A Padova, alle europee, il Pd è stato scelto da 41 elettori su 100; 16 di questi hanno però deciso di votare un’altra lista per le concomitanti comunali. Non si tratta soltanto di un "effetto Renzi", tendenze simili si avvertono anche in altri partiti e movimenti: sempre a Padova Forza Italia ha ottenuto il 14% alle europee ma ha dimezzato i propri voti alle comunali (qui però era presente una popolare lista civica in appoggio al candidato sindaco). Emblematico il caso del Comune di Bari: alle europee gli elettori hanno premiato il Movimento 5 Stelle con un significativo 26,6%, per poi garantirgli uno striminzito 7,5% alle comunali. E ci sono anche casi opposti, sebbene in misura inferiore: come a Pavia, dove Forza Italia ha ottenuto il 17% alle europee mentre alle amministrative la sua percentuale è aumentata di oltre tre punti, con la ricandidatura del popolare sindaco Cattaneo a catalizzare il voto. 

I voti, insomma, non “appartengono” più ai partiti e ai candidati, ma si prendono e si perdono a ogni elezione. È quindi assolutamente prematuro indicare l’avvio di un’"era Renzi" o “dare per morti” questo o quell’altro candidato. Data l’alta mobilità elettorale è probabile che alla prossima tornata il quadro politico sia di nuovo profondamente cambiato. L’elettore mobile, infedele e insofferente, altro non è che specchio dei tempi che viviamo: in un’Italia fatta di lavoro precario anche il voto è precarizzato. Il dato positivo è che gli elettori, al netto della seduzioni personalistiche e demagogiche, votano scegliendo in base a quel che fa il politico o a quel che promette il candidato rispetto alle loro idee e preferenze, interpretando al meglio l’azione di sanzione elettorale. Senza preclusioni ideologiche, e certamente molto più in base alla personalità del candidato che non al partito. Un'evoluzione rispetto alla quale, va notato, l’impostazione della promessa legge elettorale nazionale – il cosiddetto Italicum - va in tutt’altra direzione, vertendo su liste bloccate e su un ampio premio di maggioranza. 

Marco Morini

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