SOCIETÀ
Sorpresa: ritornano gli scioperi, negli Usa
Uno sciopero dei lavoratori di un fast food di New York. Foto: Reuters/Brendan McDermid
Hanno cominciato quelli di New York circa otto mesi fa, poi li hanno seguiti con sempre maggior frequenza e intensità anche i colleghi di Washington e Chicago, e quelli di Detroit, Kansas City e St. Louis. Si sono tolti i grembiuli, i moderni schiavi dell’industria del fast-food e hanno lasciato i banconi e le cucine dei vari Wendy’s e Taco Bell per qualche ora, per protestare contro le paghe da fame e chiedere che il salario minimo garantito a livello federale, di 7,25 dollari l’ora, sia portato a 15 dollari.
Le statistiche sull’appartenenza ai sindacati negli Stati Uniti sono ben note e quanto mai desolanti. Nel 2012, solo l’11,3% dei lavoratori americani vi era iscritto, contro il 20,1% del 1983 (il primo anno per cui questi dati sono disponibili). E la situazione è ancora peggiore nel settore privato, dove l’anno scorso solo il 6,6% della forza lavoro faceva parte di un sindacato.
Eppure, su questo sfondo sconfortante, qualcosa si muove. Sta infatti prendendo piede tra i lavoratori sotto-pagati della ristorazione Usa, in particolare quelli impiegati dalle grandi catene di fast food (la cui paga mediana è di 9,05 dollari all’ora), una nuova consapevolezza dei propri diritti come categoria, e del trattamento inumano di cui sono spesso vittima. E va intensificandosi così una nuova generazione di lotte, basate su scioperi lampo organizzati di solito all’ora di pranzo - quando le code di clienti alla ricerca di un panino a basso costo si allungano a dismisura - per massimizzarne l’impatto sul pubblico e sui media.
L’aspetto più interessante della vicenda è che non si tratta di una mobilitazione tradizionale, che negli Stati Uniti ha sempre voluto dire localizzata e settoriale, con contratti sindacali che variano – laddove ancora esistono – di azienda in azienda. Bensì osserviamo oggi i primi passi di un nuovo movimento con un raggio nazionale e indipendente dai singoli datori di lavoro. E nonostante i sindacati, in particolare la Service Employees International Union (Seiu), la stiano finanziando con milioni di dollari, questa campagna rimane fermamente nelle mani dei lavoratori.
Alla radice di queste proteste, dicono gli esperti, non ci sono necessariamente i salari tipici dell’industria della ristorazione, che sono da sempre particolarmente bassi, ma piuttosto i cambiamenti demografici che hanno coinvolto i lavoratori di questo settore.
Se un tempo, a servire i clienti di Burger King erano gli studenti di scuola superiore in cerca di qualche soldo in più per portare fuori la ragazza il sabato sera, oppure le casalinghe desiderose di contribuire un po’ al budget familiare, oggi i dipendenti dei fast-food sono capi famiglia, donne e uomini che hanno figli e coniugi da mantenere e la cui sopravvivenza dipende interamente da questo reddito. “Anche quando cercano lavoro a tempo pieno, costoro fanno fatica a trovarlo e si devono accontentare del part-time oppure devono trovarsi due impieghi per arrivare alle quaranta ore settimanali – spiega Karla Walter, una ricercatrice del Center for American Progress. - Inoltre, anche quelli che, in teoria, riuscissero a lavorare in un fast-food quaranta ore la settimana, lavorando ogni settimana dell’anno senza mai prendersi un giorno di ferie, guadagnerebbero comunque meno di 19.000 dollari l’anno, che è circa la soglia di povertà per una famiglia di tre persone”.
La situazione è degenerata a tal punto da apparire quasi comica. Di recente, McDonald’s ha fatto scandalo per aver pubblicato una guida che suggerisce ai propri dipendenti come gestire lo stipendio in modo da arrivare comodamente alla fine del mese risparmiando persino 100 dollari. Ebbene, il budget consigliato dall’azienda presume che un lavoratore abbia due diverse occupazioni, spenda esattamente zero dollari al mese per il riscaldamento e non più di 20 dollari al mese per la propria assicurazione sanitaria (quella minima messa a disposizione da McDonald’s ne costa oltre 50). Insomma una proposizione talmente insostenibile da apparire surreale.
Quello che colpisce, in particolare rispetto a un’azienda come McDonald’s che ha ottenuto profitti per 1,4 miliardi di dollari nel secondo trimestre del 2013, è che migliorare le condizioni di vita dei propri lavoratori non costerebbe poi così tanto. “Se ad esempio l’industria dei fast-food decidesse di aumentare il salario minimo di tutti i propri lavoratori a 10,50 dollari l’ora, il differenziale equivarrebbe circa al 2,7% delle vendite – spiega il Professor Robert Pollin del Political Economy Research Institute (PERI) della University of Massachusetts-Amherst, che ha condotto una serie di ricerche su questo tema – Facendo crescere il prezzo di un Big Mac dagli attuali 4 dollari a 4,05 dollari si coprirebbe il 50% dell’incremento del salario minimo mentre l’altro 50% potrebbe essere ottenuto con qualche miglioramento della produttività e una marginale ridistribuzione dei guadagni dell’azienda dai proprietari verso i lavoratori peggio pagati, senza conseguenze sullo stile di vita né dei padroni né dei consumatori”. Proprio sulla base del modello economico sviluppato da Pollin, il sito di informazione The Daily Beast ha creato un McPoverty Calculator, che consente di scoprire quale aumento salariale corrisponderebbe a ogni successivo incremento di prezzo del Big Mac.
Grazie agli sforzi di questi lavoratori sotto-pagati, che non hanno tutele sindacali e rischiano il posto per protestare, si è riacceso ora finalmente in America il dibattito sul salario minimo. Il presidente Barack Obama è sostenitore di un aumento immediato e ne ha discusso ripetutamente nel suo più recente tour economico del Paese. Nella capitale Washington, inoltre, il Consiglio comunale ha approvato una legge che obbligherebbe le aziende particolarmente grosse a pagare una living wage minima di 12 dollari l’ora. Questa mossa ha naturalmente fatto infuriare il gigante della distribuzione Walmart, che ha in programma di aprire diversi negozi in giro per la città e che ora sta minacciando di rivedere i propri piani per fare pressione sul sindaco Vincent Grey, affinché apponga il proprio veto alla misura. Intanto, alcune catene di fast-food già offrono paghe più sostenibili pur mantenendo ottimi profitti, ad esempio In-N-Out in California, dove la remunerazione più bassa è di 10,50 dollari l’ora più benefit e ferie pagate per i dipendenti a tempo pieno.
Con i sindacati americani quanto mai moribondi, questa non è una campagna facile. Ma se dovesse avere successo, potrebbe darci qualche indicazione sul futuro della mobilitazione dei lavoratori nell’era della globalizzazione e nelle nostre società occidentali ormai post-industriali.
Valentina Pasquali