SOCIETÀ

Tecnodemocrazia: speranza o minaccia?

Per noi della provincia italiana, che abbiamo goduto del primo confronto televisivo “all'americana” tra i cinque candidati alle primarie del PD, attendiamo di sapere se e in che forma ci saranno quelle del PdL e siamo qui a festeggiare l'anno primo della liberazione dai polpettoni dei talk show, l'avvento della tecnodemocrazia è forse ancora lontano. Eppure quel che è successo nella campagna elettorale americana ha aperto una nuova era nei rapporti tra democrazia, tecniche e tecnologie della comunicazione. La cui importazione, più o meno rapida  e più o meno autentica, sarà inevitabile.

Nella campagna elettorale che ha portato alla rielezione di Barack Obama alla Casa Bianca è andato in onda ben altro: numeri al posto di parole. Dati, dati, dati, e una nuova e sofisticata capacità di utilizzarli per le strategie elettorali. Con annessi problemi e pericoli sulla identificabilità degli elettori (di cui si parla in questi giorni a causa delle regole adottate per le primarie del PD) e sui possibili usi tutt'altro che democratici della nuova frontiera della tecnodemocrazia.

Uno dei “segreti” della vittoria di Barack Obama è stato infatti la sua superiorità nell’uso delle nuove tecnologie e nella capacità di identificare e raggiungere gli elettori indecisi degli stati in bilico. La sofisticatezza raggiunta dalle tecniche di microtargeting è stata tale che il suo staff è riuscito a pianificare strategie specifiche per ogni singolo elettore indeciso residente in quegli swing states su cui poi si è giocata l’elezione di quest’anno. 

Il team democratico ha speso oltre 100 milioni di dollari in “investimenti tecnologici”. Come ha riferito al New York Times Jim Messina, capo dello staff di Obama, gran parte di questi soldi sono stati utilizzati per acquistare “dati e banche dati, ovunque”. Si è trattato principalmente di dati sensibili originariamente raccolti a fini commerciali da grandi aziende e agenzie specializzate (tramite monitoraggio degli acquisti personali, transazioni con carta di credito, programmi fedeltà etc) e acquistati sul mercato dagli uomini di Obama. Questi dati sono poi stati “incrociati” con le statistiche elettorali del 2008 e del 2010 e con i dati fiscali individuali disponibili. Con questa immensa mole di numeri, dall’inizio del 2012, la campagna democratica ha effettuato oltre 66.000 simulazioni al computer al giorno ed è riuscita a mettere a punto un accurato sistema di catalogazione degli elettori negli otto stati considerati in bilico dai sondaggi (Colorado, Iowa, Florida, Nevada, New Hampshire, Ohio, Virginia, Wisconsin). In pratica è stato realizzato un dossier per ciascuno di questi elettori indecisi. A ogni individuo sono stati associati quattro parametri di valutazione, espressi in una scala da 1 a 100: il primo parametro era relativo al grado di probabilità che quell’elettore votasse per Obama; il secondo alla possibilità che partecipasse effettivamente al voto; gli altri due valori riguardavano il grado in cui poteva essere influenzato  dai sondaggi (terzo parametro) e dalle conversazioni interpersonali (quarto parametro). 

L’analisi incrociata di questi quattro valori ha determinato le strategie d’azione della campagna verso ogni singolo elettore. In base a questo, infatti, lo staff di Obama ha scelto quali messaggi inviare, con che mezzo raggiungere l’elettore e se inviare volontari a domicilio per persuaderlo di persona. In questo ambito la differenza con la campagna repubblicana è stata netta: nonostante fosse molto ben finanziato, lo staff di Romney non ha organizzato alcuna attività di questo tipo, ma ha preferito concentrarsi su gruppi specifici di elettori come i conservatori evangelici, tradizionalmente vicini ai repubblicani ma spesso tendenti all’astensione. Una mancanza forse decisiva: i quattro più importanti stati in bilico (Florida, Ohio, Virginia, Colorado) sono stati tutti vinti da Obama con un margine inferiore ai 200.000 voti. Una circostanza che potrebbe suscitare qualche rimpianto in casa repubblicana: una campagna elettorale più accurata e meglio “cucita” sui singoli elettori avrebbe potuto dare risultati ben diversi. 

Come sempre accade, tra quattro anni queste tecniche saranno divenute la norma e nuove strategie e altre invenzioni risulteranno decisive. Come è accaduto tra il 2008 e oggi: l’innovativo uso di Twitter, YouTube e Facebook fu molto importante per creare entusiasmo attorno alla candidatura del semi-sconosciuto Obama, garantirgli un efficace ritorno d’immagine e un costante flusso di micro-donazioni spontanee. Appena quattro anni dopo però, le tattiche comunicative del 2008 sono diventate routine per entrambe le campagne. Un effetto probabile delle innovazioni del 2012 sarà quello di contribuire all’ennesimo incremento dei costi delle campagne elettorali: le banche dati costano tanto, così come quegli algoritmi che sono essenziali per utilizzarle e che spesso sono protetti da brevetto. Le attività di elaborazione dei dati necessitano poi di figure altamente qualificate: ingegneri, matematici, programmatori, analisti. Tutte persone che per entrare a far parte degli staff elettorali per qualche anno o pochi mesi devono essere convinte a lasciare il lavoro o a prendersi lunghe aspettative. Non bastano volontari entusiasti, serviranno come il pane professionisti ben pagati.

Ma quello dei costi, e dunque dell'innalzamento delle barriere all'ingresso della competizione elettorale, non è l'unico lato oscuro dell'era delle elezioni “smart”. C'è anche  da riflettere sulle conseguenze a lungo termine dell’uso di queste strategie di marketing elettorale la cui materia prima, comunque la si giri, è l'elettore in persona. I suoi comportamenti, i suoi gusti, le sue scelte. Tutto trasferito in dati, e dunque diventato “tracciabile”. E' vero che, seppur in misura meno sofisticata, l’applicazione delle tecniche di vendita più aggiornate alla politica avviene sin dagli anni ’60. Ma con queste tecniche si fa un salto di qualità: arrivare a realizzare un “profilo” così preciso del singolo cittadino è forse qualcosa che va oltre le normali strategie elettorali. Significa considerare l’elettore come un oggetto manipolabile. Possiamo considerare queste operazioni come “tecniche normali in democrazia?”, è la domanda di base. Alla quale ne seguono altre:  come e per quanto tempo vengono conservati i profili degli elettori? Quali i diritti del cittadino? Sono dubbi leciti che tra poco riguarderanno anche noi.

Marco Morini

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