SOCIETÀ

Timeline di Facebook come diario delle vite digitali

È dagli inizi del 2012 che il social network Facebook ha lanciato Timeline, il nuovo layout dei profili utente, una sorta di linea del tempo che gradualmente si è andata consolidando all’interno dello “status” dei singoli utilizzatori. Questa novità, che ha profondamente modificato l’interfaccia del social network e costretto gli utenti a modificare abitudini ormai radicate, ha sollevato polemiche e scatenato raffiche di articoli e interventi più o meno allarmistici, su carta e soprattutto sul Web. Timeline, noto anche come diario della vita digitale, tiene conto dello status precedente con i dati registrati dallo stesso utente e mantiene memoria di tutti i messaggi della propria bacheca e quelli degli amici del network. Nulla di nuovo sotto il sole, perché anche prima di questa forma a diario Facebook teneva memoria delle nostre vite virtuali; ciò che è cambiato è solo la presentazione dei dati, ora organizzati e resi disponibili alla consultazione cronologicamente: a linea di tempo, nei termini di Facebook. Con quali conseguenze? 

Luana Giacovelli in un recente articolo del 2 novembre scorso racconta su la Stampa come in Belgio una nuova “Pubblicità Progresso” stia mettendo in guardia dalla divulgazione di dati sui social network: un problema presente fin dal principio, ma oggi reso più pressante da alcune caratteristiche della nuova interfaccia. L’intento dichiarato di Facebook nell’introdurre questo cambiamento era rispondere a una delle esigenze più sentite dei suoi utenti, la possibilità di ritrovare con facilità commenti, status, foto e informazioni inserite senza necessariamente scorrere all’indietro (e leggere uno per uno) centinaia e centinaia di post. Timeline nasce per far fronte all’uso che del social network è stato fatto in questi anni dai suoi utenti, immensamente cresciuti di numero e ormai, in molti casi, con diversi anni di utilizzo alle spalle, e dunque con delle “storie” complesse di cui tenere memoria; in questo modo, però, si è realizzata una struttura capace di raccogliere e organizzare queste “storie” personali in uno database dalle potenzialità estremamente vaste.  Disponibile non soltanto per i gestori – era così anche prima – ma anche, con un po’ di abilità e complice la “trascuratezza digitale” propria della grande maggioranza degli utenti – per chiunque abbia accesso al network e sappia muoversi al suo interno, come lo spot belga cerca di dimostrare.

È abbastanza semplice gestire correttamente i nuovi profili mantenendo il controllo delle informazioni, per chi non è un neofita, ma ciò richiede consapevolezza dei vari livelli di riservatezza, e la capacità di gestire le impostazioni che consentono di nascondere ad altri informazioni considerate “personali”. In linea di principio, un utente sufficientemente esperto è in grado di avere accesso a tutto il registro, di selezionare le opzioni più ristrette e di mantenere il controllo delle informazioni viste dalle cerchie di “amici”. Tuttavia, è un ossimoro parlare di sfera “personale” o anche solo sfera “privata” (amici) in un contesto di social network. Gusti, comportamenti, inclinazioni, ma in particolare dati personali dei cittadini della rete sono qui visibili per definizione, e attirano l’interesse delle grandi società orientandone la ricerca di mercati.

 Alcuni non sembrano per nulla spaventati di fronte all’idea che tutti possano sapere cosa hanno fatto o pensato nel passato, e il loro profilo risulta ricco di informazioni di ogni tipo; particolarmente esposti sembrano soprattutto i giovanissimi, poco esperti dei complicati meccanismi della rete e dei settaggi delle impostazioni della privacy, non sempre trasparenti. La trasformazione introdotta da Facebook sembra difficile da interiorizzare, forse anche perché va controcorrente rispetto ad uno degli aspetti più radicati nella percezione dalle società dei media, quell’assenza di memoria che gli studiosi di comunicazione hanno assimilato ad un eterno presente. Abituati a poter dire, entro limiti molto ampi, tutto ed il contrario di tutto, i cittadini delle “società liquide” si trovano qui di nuovo, come nei tempi lontanissimi del passaggio da una cultura orale ad una scritta, di fronte alla possibilità – e al rischio – che tutto quanto dicono (e fanno) venga ricordato, messo in ordine e anche verificato da altri. 

Questo aspetto, che può avere dei pericoli, come si vede nella pubblicità belga, presenta anche riflessi positivi: rende infatti esplicito al livello dei comuni utenti un rischio che prima era presente ma inavvertito: il fatto che la storia del nostro agire digitale è conservata e disponibile nei server dei network cui partecipiamo. Incrociando tutti i dati si possono ricostruire profili di ognuno di una accuratezza sorprendente: informazioni preziose, specialmente per gli operatori commerciali.

L’utente “anonimo” diviene così oggetto di analisi di mercato, il suo profilo utente viene usato per orientare scelte e nuove applicazioni tecnologiche. Ma è sul profilo dell’utente “identificato” che si concentrano i maggiori interessi laddove incrociando i log è possibile tracciare una mappatura della persona indagando sui suoi interessi sociali, culturali economici, e di comportamento. Facebook è stato al centro di violente polemiche ancora nel 2007, quando tracciò i movimenti dei suoi utenti che avevano effettuato acquisti online, rivendendo poi le informazioni a piattaforme come Beacon, investitori pubblicitari. 

La necessità di tenere aperti e trasparenti i siti di social media è da tempo uno dei punti di forza delle politiche centrate sugli utenti per evitare abusi di marketing da parte di società che usano gli stessi utenti e i loro profili comportamentali e demografici violando diritti personali e sui dati. Un aspetto subdolo di cui pochi citizen 2.0 sono consapevoli è che questi social network costituiscono dei veri e propri “walled garden”, ovvero luminosi e ampi giardini murati dove è facile che l’utente finisca per essere usato e dai quali, una volta creata la rete di relazioni tramite i contatti personali, diviene praticamente impossibile uscirne. Questi siti, infatti, attraggono gli utenti offrendo loro spazi personali su cui pubblicare e mettere in comune risorse di ogni tipo, ma blindano anche i dati dei partecipanti all’interno, costringendoli a svolgere qualsiasi attività nel loro recinto. Se, per un qualsiasi motivo, un individuo si vuole trasferire su un altro network sociale, tutti i dati, le relazioni e le risorse create andranno perdute. 

Non si può quindi non guardare con favore la proposta – che risale ancora al 2007 - di quattro importanti pionieri del Web 2.0, Marc Canter (co-fondatore di Ourmedia ), Robert Scoble, Joseph Marc (capo degli smanettoni di Plaxo) e Michael Arrington (fondatore di TechCrunch) di una “Carta dei diritti degli utenti del web sociale” a tutela dei diritti di milioni di utenti le cui identità digitali vivono entro reti sociali dalle quali è difficile uscire, e dove sono di fatto a disposizione delle grandi compagnie di business, nella quale leggiamo “A tutti gli utenti del social web vanno riconosciuti una serie di diritti fondamentali… dalla proprietà dei dati personali, al flusso dei contenuti da essi creati, dal controllo sulle possibilità e modalità di condivisione, alla libertà di garantire accesso continuato ai dati…” Con l’augurio che le novità introdotte da Timeline, che rendono visibile, per quanto parzialmente, la storia  digitale di ognuno, possano favorire la consapevolezza collettiva su questi temi, finora molto limitata.

Antonella De Robbio

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