SOCIETÀ

Geel: una comunità che accoglie le persone con disagio mentale

A mezz’ora di treno da Anversa, nel cuore della campagna belga, Geel appare come una cittadina tranquilla e ordinata. A prima vista sembra solo uno dei tanti altri borghi che punteggiano le Fiandre, ma la sua storia è unica. Da più di 700 anni gli abitanti ospitano in casa loro persone con disagio mentale, in alcuni periodi questi ospiti sono stati migliaia e arrivavano da tutta Europa. Attualmente sono alcune centinaia le persone seguite dal sistema di foster family care (o accoglienza eterofamiliare) che condividono la loro vita con le famiglie ospitanti per anni, decenni o addirittura per tutta la vita.

Oggi Geel è una cittadina di circa 40 mila abitanti e, appena fuori dal centro storico, si scorge un complesso di edifici immersi nel verde: è l’Openbaar Psychiatrisch Zorgcentrum (OPZ, o Centro pubblico di cura psichiatrica). L’atrio e la sala d’attesa hanno le pareti dipinte con colori pastello, sui tavolini di legno ci sono delle piccole decorazioni in ceramica fatte a mano dalle persone ricoverate. Il calore pomeridiano di giugno entra dalle finestre aperte e qualche paziente passeggia nei corridoi silenziosi o riceve una visita: l’ospedale psichiatrico di Geel è molto lontano dall’immagine ‘classica’ dei manicomi.

Questo, infatti, è un centro di eccellenza molto noto all’interno della comunità psichiatrica e nel 2023 il suo modello di assistenza basato sulla comunità è stato scelto dall’Unesco per essere inserito nel Registro delle buone pratiche da salvaguardare.

Family foster care Geel (Unesco film) from Stuifzand on Vimeo.

All’OPZ incontriamo due persone per capire meglio come funziona il modello Geel: sono l’assistente sociale Michelle Lambrechts, che dal 2012 lavora come case manager, e Lutgart Dams che dal 2018 è a capo del team di psicologi. Innanzitutto, Lambrechts sottolinea che ci troviamo in un’istituzione pubblica, e che “nel sistema di accoglienza eterofamiliare non ci sono ‘pazienti’ qualsiasi e infatti le chiamiamo boarders (ospiti o pensionanti). In effetti si tratta di pazienti psichiatrici, ma questa parola si associa alla malattia o a situazioni problematiche, mentre noi vogliamo concentrarci di più sul processo di recupero”. A Geel la parola ‘paziente’ non si usa mai, così come non sono utilizzati termini come ‘malati di mente’ o altri che portino comunque con sé pregiudizi o stigma. Il sistema di foster family care cerca di essere quanto lontano possibile dall’ospedalizzazione, anche se è gestito dall’OPZ.

Chi sono gli ospiti del sistema di accoglienza eterofamiliare

Le persone coinvolte nell’accoglienza eterofamiliare sono per la maggior parte adulte o anziane, ci sono anche dei minori ma in numero molto esiguo, e quasi tutte provengono dalla provincia di Anversa dove si trova anche Geel. Dams spiega che “l’età media degli ospiti è di 66 anni anche perché i problemi psichiatrici devono essere stabilizzati, cioè devono essere cronici, e non devono costituire un pericolo per sé e per le altre persone. Inoltre, non devono avere dipendenze da alcol o da sostanze stupefacenti”.

Un aspetto fondamentale è che devono essere loro stessi a fare domanda per accedere al sistema di accoglienza, che quindi è su base volontaria ed è adatto a persone che non stanno bene in ospedale e preferiscono vivere in piccoli gruppi. Lambrechts dice che “si tratta di persone che non possono vivere da sole ma nemmeno con la loro famiglia d’origine, e quindi questa è un’alternativa al ricovero nella clinica psichiatrica”. Inoltre, sono i boarders che scelgono in che tipo di famiglia essere ospitati, se composta da una o più persone, con o senza bambini, della loro stessa loro età oppure no. “È importante - prosegue Lambrechts - che gli ospiti siano parte attiva del processo e vogliano essere parte integrante della famiglia che li accoglie, così come del quartiere e della città, che ci dicano insomma come vogliono vivere”.

Oggi a Geel ci sono circa 120 boarders (più uomini che donne) per 100 famiglie ospitanti, tra gli ospiti ci sono 10-12 minorenni che possono anche vivere con la nuova famiglia durante la settimana e nel weekend invece tornare nella loro famiglia d’origine, che per varie ragioni non può occuparsi di loro in modo continuativo. Ogni case manager segue una ventina di ospiti per tutta la durata del loro percorso, che può essere anche molto lungo, e rimangono accanto a loro anche se cambiano famiglia ospitante.

Qui non ci sono ‘pazienti’ qualsiasi ma ‘boarders’ (ospiti o pensionanti): vogliamo concentrarci di più sul processo di recupero e non sulla malattia. Michelle Lambrechts, assistente sociale all'OPZ di Geel

Dams racconta che “la durata media della convivenza è di 29 anni, con un record di 80 anni nel caso di una persona che è rimasta nella stessa famiglia tutta la vita, passando da una generazione all’altra. Era molto giovane quando è stata accolta dai suoi nuovi ‘genitori’ e poi è rimasta in casa con i loro figli: quando vediamo che c’è un buon rapporto fra l’ospite e la famiglia cerchiamo di mantenerlo il più a lungo possibile”.

Ma non tutte le persone che si candidano a entrare nel sistema di foster family care diventano ospiti, perché come spiega Lambrechts “di solito devono restare almeno tre mesi in osservazione all’OPZ per capire bene la loro personalità prima di essere inserite nel nostro database. Queste persone possono avere vari tipi di disagio psichico: circa un terzo ha una diagnosi di schizofrenia o psicosi, un altro terzo ha disturbi dell’umore o della personalità e il resto ha qualche tipo di disabilità intellettuale o deficit cognitivi, oppure un mix di queste condizioni”.

Anche chi offre ospitalità in casa propria deve passare una selezione

Chi si offre di ospitare uno o più boarders deve innanzitutto abitare a Geel o nelle immediate vicinanze perché, come dice Dams, “la nostra regola è che devono essere al massimo a mezz’ora di macchina dall’ospedale psichiatrico. Dato che il personale è disponibile 24 ore su 24 in caso ci fosse bisogno di un intervento professionale, per esempio, durante una crisi”. Però ogni anno queste crisi si verificano solo nel 10-15% dei casi, e la maggior parte delle volte il personale di OPZ cerca di intervenire e stabilizzare la persona in difficoltà direttamente a casa senza necessità di ricovero. Inoltre, la vicinanza serve anche perché l’ospedale psichiatrico ha un centro diurno in cui gli ospiti possono fare attività e corsi: come imparare a cucinare, a tenere un orto o a curare un giardino.

Il termine usato all’OPZ è sempre ‘famiglia’ ma in realtà può candidarsi come ospitante anche una persona singola, o una coppia oppure una famiglia con bambini; in ogni caso tutti devono passare attraverso un percorso di valutazione. Infatti, Lambrechts sottolinea come la cosa più importante è che “le famiglie offrano un ambiente stabile e accogliente anche dal punto di vista emotivo per gli ospiti”. Per capirlo ci sono vari colloqui con uno psicologo, vanno forniti certificati medici per garantire che ci si può occupare dell’ospite e viene controllata anche la fedina penale, oltre ad almeno due visite a casa da parte di psichiatri e assistenti sociali. Tutto questo è necessario per assicurarsi che le persone siano davvero motivate e consapevoli, oltre a capire anche cosa si aspettano le famiglie dagli ospiti. Secondo Lambrechts “è meglio avere più famiglie con profili diversi fra cui scegliere per fare l’abbinamento migliore con l’ospite: prima di iniziare qualsiasi processo di accoglienza vogliamo essere assolutamente sicure che ci sia una buona compatibilità, altrimenti non iniziamo nemmeno”.

Una volta fatto l’abbinamento ospite-famiglia, il personale sociosanitario fa una visita a casa una volta al mese per sapere se va tutto bene, e i boarders vanno almeno una volta alla settimana in ospedale per ricevere le eventuali medicine o terapie. Inoltre, se per caso la famiglia ospitante deve assentarsi per brevi periodi a causa di un problema di salute o di un viaggio, può affidare i suoi ospiti all’OPZ; qui c’è anche un reparto dove gli ospiti trovano sempre posto in caso di bisogno.

I benefici del modello Geel sono tanti

Al momento le famiglie selezionate nel database sono circa un centinaio, ognuna di queste può accogliere da uno a un massimo di tre ospiti. Per ogni persona accolta in casa la famiglia ospitante riceve un contributo di circa 1200 € per le spese sostenute (più o meno 40 € al giorno). Secondo Dams “dal punto di vista economico questo sistema è vantaggioso perché per lo Stato il costo di ospedalizzare un paziente è circa 3-4 volte più alto di quanto si spenda per sostenere un’accoglienza eterofamilare”.

Ma i benefici del sistema praticato a Geel non sono solo economici, si vedono infatti prima di tutto sul benessere degli ospiti: Lambrecht aggiunge che “sicuramente la relazione che si instaura fra ospite e famiglia è fondamentale nel processo di recupero: ti fa sentire a casa con qualcuno che conosci e ti conosce bene, dandoti il senso di una riacquista ‘normalità’. Diventi parte integrante di una famiglia, della sua cerchia di amicizie, di un vicinato che ti saluta quando ti incontra per strada. Infatti, chi ospita parla delle persone accolte come di qualcuno di famiglia: non è solo farsi compagnia ma anche prendersi cura l’uno dell’altro”.

Un altro dato interessante è che tra le persone seguite da OPZ, quelle nel sistema di foster family care hanno bisogno di meno farmaci rispetto a quelle che invece rimangono in carico all’ospedale, a riprova che gli effetti benefici di questo tipo di accoglienza sulla psiche degli ospiti. E questa efficacia ha sicuramente avuto un ruolo nella scelta dell’Unesco, che per Dams è stato “un bellissimo regalo di San Nicola, perché la notizia ci è arrivata il 6 dicembre! Dopo abbiamo avuto molta attenzione mediatica, che ha fatto aumentare le candidature per diventare famiglie ospitanti e anche il numero di visitatori (soprattutto medici e giornalisti)”. Dams prosegue dicendo che il modello messo in pratica a Geel naturalmente “non è unico al mondo, anche se unica è la sua storia antichissima che risale addirittura al Medioevo e di cui la città va molto fiera. Infatti, questo sistema è applicabile anche altrove e ci sono già delle esperienze simili in Francia, Germania e anche in Italia”.

Dietro ogni ospite e ogni famiglia che accoglie c’è una storia

Lambrechts racconta una storia che a suo avviso ben rappresenta “la bellezza del sistema Geel: c’è un profilo abbastanza comune fra le persone che seguo come case manager. Si tratta di donne di mezza età, che avevano un marito e dei figli, ma che a un certo punto della loro vita si sono ritrovate sole. La solitudine aggrava il disagio mentale, perché anche con le migliori cure disponibili, gestirlo senza una rete di affetti che ti sostenga è molto difficile; ma il sistema di accoglienza eterofamiliare ha permesso loro di crearsi una nuova famiglia.”

A questo punto ci domandiamo come sia il rapporto tra la famiglia d’origine dell’ospite e quella nuova in cui trova accoglienza? Secondo Dams “di solito c’è molto rispetto da parte della famiglia di origine verso quella nuova che accoglie il loro parente, anche perché spesso sono tutte persone adulte. Gli unici aspetti problematici li ho visti con i pochi ospiti minorenni, perché per loro gestire le due famiglie può essere difficile”. In ogni caso OPZ si pone sempre come intermediario fra le due famiglie, che sono in contatto tramite la figura del case manager.

Prima di salutare Michelle Lambrechts e Lutgart Dams, chiediamo se vogliono condividere qualche ricordo particolare che hanno vissuto. Entrambe sorridono e dicono che sono tantissimi e non saprebbero davvero quale scegliere, ma per Dams “è bellissimo anche solo vedere ogni giorno i volti felici delle persone che frequentano l’OPZ e la città”. Ma alla fine ci lasciamo con una frase detta a Lambrechts da una signora che ha accolto un’ospite più o meno della stessa età: “vivendo da sola mi ero impigrita, la sua presenza mi ha dato di nuovo una ragione per alzarmi la mattina e per cucinare la sera, ora lo faccio per lei”.

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