SOCIETÀ
Tracciati, esaminati, schedati. Lavoratori sotto controllo negli Usa
Se le rivelazioni di Edward Snowden sulle attività di spionaggio elettronico della National Security Agency (Nsa) hanno provocato negli Stati Uniti un gran dibattito sul rapporto tra sicurezza nazionale e diritti civili, gli americani che ci tengono alla privacy hanno anche altro di cui preoccuparsi. Non è infatti solo il governo di Washington a monitorare ogni loro movimento. Grazie alla diffusione delle carte di credito, dell’e-commerce e dei social media, le loro preferenze di consumatori sono annotate religiosamente dalle aziende, che sperano così di aumentare le vendite personalizzando la propria offerta e le proprie campagne pubblicitarie di individuo in individuo. Per non parlare poi dei lavoratori, che devono ora vedersela con dirigenze che, oltre a affidarsi sempre più a nuove tecnologie intrusive per selezionare nuovi dipendenti, continuano a utilizzarle anche in seguito, per controllarne il comportamento dopo che sono stati assunti.
“La situazione negli Stati Uniti è diversa dall’Europa, esiste una legge federale (l’Electronic communications privacy act) che stabilisce il diritto dei datori di lavoro di monitorare qualsiasi attività e comunicazione che passa per i computer e server aziendali”, dice Nancy Flynn, direttrice esecutiva dell’ePolicy Institute di Columbus in Ohio. “I lavoratori americani non hanno alcuna aspettativa di privacy in ufficio e, a questo punto, devono dare per scontato di essere sorvegliati”.
Le aziende sono già da anni in grado di verificare in tempo reale quante ore gli impiegati dedicano ai propri doveri professionali e quante invece a rispondere a messaggi privati su Gmail o a navigare su Facebook e Pinterest. Più recentemente, l’introduzione di smartphone, tablet e dispositivi mobili vari, tutti rigorosamente dotati di sistemi Gps di ultima generazione, ha permesso ai datori di lavoro di cominciare a seguire passo passo anche gli spostamenti di quei dipendenti le cui responsabilità li portano lontano dal computer e fuori dall’ufficio, ad esempio autisti, giardinieri, elettricisti, idraulici e persino le infermiere, che corrono continuamente da un lato all’altro dell’ospedale. Un rapporto pubblicato nel 2012 dall’Aberdeen Group, e ripreso di recente dal Wall Street Journal, ha calcolato che circa il 37% di società che lavorano in questo genere di settori si affidano al Gps per monitorare il personale fuori sede.
Anche le app contribuiscono a facilitare il compito di chi si occupa di risorse umane. Ad esempio Weekdone, che ogni settimana invia rapporti fitti di numeri e dati sull’operato dei dipendenti ai loro manager, che li esaminano e commentano prima di mandarli ai dipendenti stessi come feedback sul livello di efficienza dimostrato.
Infine, lo spionaggio elettronico nel mondo del lavoro si estende anche fuori orario d’ufficio. È infatti prassi comune tenere d’occhio i contenuti che i lavoratori postano sui social media e altre piattaforme online simili nel tempo libero. Con il risultato che si può finire nei guai non solo se si divulgano segreti industriali, ma anche a causa delle proprie opinioni personali e politiche. “Negli Stati Uniti, il primo emendamento della Costituzione protegge il diritto di espressione dalle interferenze del governo”, spiega Flynn. Ma gli operatori del settore privato possono stabilire i parametri che preferiscono e quindi imporre ai dipendenti di non trattare certi argomenti pubblicamente se tali argomenti sono ritenuti in conflitto con gli interessi dell’azienda. Le uniche eccezioni sono conversazioni tra persone impiegate da una stessa corporation a proposito delle condizioni di lavoro, conversazioni protette dalla legge che regola le attività sindacali (National labor relations act).
“In generale, pensiamo sia un problema quando i datori di lavoro presumono in maniera categorica che i dipendenti vadano monitorati affinché facciano il loro lavoro in maniera efficiente – nota Lee Tien, avvocato presso la Electronic Frontier Foundation di San Francisco in California – Bisogna tenere conto anche di questioni di fiducia e equità. Solo perché siamo in grado di sorvegliare non vuole dire che dobbiamo farlo tutti i momenti”. Eppure la cornice legale in cui si muovono sia le aziende sia i lavoratori è quella che è, almeno per il momento. Come spiega Flynn, “la legge non si è evoluta alla stessa velocità delle tecnologie”.
In questo contesto, il suggerimento dato ai datori di lavoro dall’ePolicy Institute e dalla Electronic Frontier Foundation è di coinvolgere il più possibile i propri dipendenti nella formulazione delle regole di comportamento, o perlomeno di fare uno sforzo per spiegarne l’esistenza e le ragioni. Altrimenti si rischia solo di produrre una forza lavoro stressata e arrabbiata. Cosa forse poco importante durante una recessione, quando i lavoratori non hanno dove altro andare e le aziende puntano tutto sulla produttività dei singoli per risparmiare sui costi. Ma che diventa sicuramente controproducente non appena l’economia comincia a riprendere quota.
Valentina Pasquali