UNIVERSITÀ E SCUOLA

Università, ci vorrebbe una giornata di 36 ore

Ieri mattina non ho fatto lezione: avevo in aula duecento studenti del corso di laurea in medicina e chirurgia ma li ho mandati a casa. Ieri pomeriggio presto avevo il ricevimento degli studenti ma sono stato irreperibile: sarà venuto qualcuno? Ieri sera infine, sono riuscito a fare lezione ai miei 150 studenti del corso di laurea in infermieristica, pur arrivando alla lezione in ritardo. Giornata da assenteista? No: avevo una sessione di laurea in infermieristica con 40 laureandi che dovevano sostenere la prima delle due prove previste. Giornata particolarmente densa di impegni? Neppure: insegno in tre corsi nel primo semestre (e in due nel secondo semestre) e ho quattro ore di lezione tutti i giorni della settimana. Ogni tanto capita un impegno accademico: una sessione di laurea, un Consiglio di dipartimento, una giunta di facoltà e non può che sovrapporsi a una o due lezioni. Potrei farmi sostituire a lezione, ma non è facile: i miei colleghi sono impegnati quanto me.

Grazie ad una legge dell’ex ministro Tremonti, il ricambio dei docenti universitari è stato enormemente ridotto: chi va in pensione non viene sostituito e chi resta in servizio deve farsi carico dei corsi che rimangono via via scoperti. Il sovraccarico lavorativo che consegue a questa situazione è tale che in pratica si autoelimina: quando nella stessa ora dovrei fare due cose, una delle due si abolisce da sola. Posso naturalmente “ottimizzare” il mio rendimento. Ottimizzare in questo contesto è un eufemismo che significa ridurre la qualità del servizio prestato rendendolo il più possibile stereotipato e riproducibile da un anno all’altro. Infatti è chiaro che fare quattro ore di lezione al giorno tutti i giorni della settimana è possibile solo se gli argomenti scelti per il programma sono poco aggiornati e non innovativi, perché innovare vorrebbe dire studiare, cioè usare del tempo, che non ho. Anche ottimizzando, comunque, non posso fare due cose diverse nello stesso tempo e quindi qualche lezione gli studenti la perdono lo stesso.

Almeno questo lavoro, che è gravoso, mi varrà il riconoscimento “meritocratico” dell’Agenzia nazionale di valutazione dell’università e della Ricerca (Anvur) nominata dall’ex ministro Gelmini? No, tutto il lavoro descritto vale zero perché l’Anvur non valuta la didattica, valuta soltanto la ricerca: che io faccia o non faccia lezione è completamente irrilevante, e ai fini della mia valutazione l’Anvur mi chiede soltanto di produrre le mie pubblicazioni scientifiche.

Non che io non ne abbia, per carità: tutti i docenti ne hanno qualche decina, fatte magari quando l’impegno didattico era ancora sostenibile. Però mi dà fastidio l’atteggiamento spocchioso dei valutatori, che fanno finta di ignorare la situazione di carenza drammatica di docenti nell’università italiana e discettano di eccellenza scientifica, meritocrazia e mediane. L’università italiana dopo tagli e blocchi di assunzioni è ormai al collasso e non è l’eccellenza a mancare ma la mano d’opera: l’equipaggio non basta più per far navigare la nave; e non è neppure una nave così grande perché l’Italia ha meno studenti universitari e meno laureati di tutti i suoi vicini europei.

Andrea Bellelli

Redazione Roars

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