SOCIETÀ

Uomo e paesaggio, una riflessione urgente

In un’epoca di dissesto idrogeologico, “con aree a rischio presenti in 6.633 comuni italiani, l’82% del totale, e con oltre 6 milioni di cittadini residenti in zone esposte al pericolo di frane o alluvioni”, (da Ecosistema Rischio 2013, dossier annuale di Legambiente e Protezione Civile; immagini e dati anche su: www.dissestoitalia.it) è ancora possibile immaginare un equilibrio tra uomo e paesaggio, sottraendo terreni alla cementificazione selvaggia, limitando l’eccessivo consumo del suolo, il disboscamento e prendendosi davvero cura della terra? In Veneto, dal 1970 al 2006, il fenomeno dell’urbanizzazione ha portato alla scomparsa di 140.800 ettari di terreni, una superficie pari a 1.400 chilometri quadrati; dal 2001 al 2009 sono state rilasciate concessioni edilizie per 110 milioni di metri cubi di cemento per nuove case e 130 milioni per uso produttivo. Un quadro desolante che induce a chiedersi quanto l’uomo riesca a far tesoro dell’esperienza e a imparare dai propri errori, e se sia, dunque, davvero possibile ricercare oggi un nuova forma di dialogo tra uomo e paesaggio. Quella che potrebbe sembrare una riflessione priva di pragmatismo, preludio a un elenco di saltuarie buone pratiche, può forse invece favorire lo sviluppo di una rinnovata condizione mentale e rappresentare una possibile via di fuga. Il paesaggio può accogliere l’uomo, pur mantenendolo separato da sé, investendolo di una responsabilità morale.

“Paesaggio è natura che si rivela esteticamente a chi la osserva e la contempla con sentimento”È insieme natura e storia, è relazione dinamica tra uomo e territorio. “Né i campi dinanzi alla città né il torrente come ‘confine’, ‘strada mercantile’ e ‘ostacolo per costruire ponti’, né i monti e le steppe dei pastori e delle carovane (o dei cercatori di petrolio) sono, in quanto tali, paesaggio. Lo diventano solo quando l’uomo si rivolge a essi senza uno scopo pratico, intuendoli e godendoli liberamente per essere nella natura in quanto uomo” (Joachim Ritter, Paesaggio, uomo e natura nell’età moderna, Guerini e associati, 1994).

Partendo dal dettaglio, ci si domanda: qual è, oggi, il significato profondo di coltivare un giardino, di prendersi cura di un piccolo spazio verde? Per Hervé Brunon, storico del paesaggio e responsabile di ricerca al Centre National de la Recherche Scientifique (Cnrs) di Parigi, significa “prendersi cura di sé e degli altri”, delineando quell'orizzonte di speranza che non consiste nel “renderci padroni e possessori della natura, ma piuttosto nel ricostruire un rapporto di rispetto sul piano etico e di appartenenza sul piano ontologico. Un rapporto che si potrebbe forse enunciare sul modello del cogito cartesiano: ‘pianto, dunque sono’, ‘semino, dunque vivo’ o ‘coltivo, dunque divento’”. Brunon, tra i relatori di Curare la terra, tema al centro delle prossime Giornate internazionali di studio sul paesaggio (il 20 e 21 febbraio agli Spazi Bomben di Fondazione Benetton studi ricerche, a Treviso, e dedicate quest’anno alla figura di Louis Guillaume le Roy, 1924-2012, il “re delle erbacce”, pioniere nel campo delle azioni ecologiche di coinvolgimento attivo dell’uomo sul territorio), introduce e sintetizza una nuova e necessaria condizione mentale e un diffuso senso di responsabilità civile. Partendo da una riflessione “sulla coltivazione dei luoghi abitati, per arrivare a esplorare una diversa attitudine progettuale e un’adesione sostanziale a un mondo in divenire che vogliamo riconoscere come paesaggio”.

Non tanto, dunque, una constatazione dei sempre più numerosi casi di “ritorno alla terra” presenti nella società contemporanea, né una semplice osservazione di incursioni nel panorama di iniziative dal basso, piuttosto una riflessione profonda sulla rinnovata (e sempre più consapevole) liaison tra uomo e paesaggio. “Oggi si parla troppo, e spesso con superficialità, di un ritorno alla terra: è un dato di fatto, certo, ma è un fenomeno che deve essere osservato con attenzione, per prima cosa non va considerato come un ripiego o una moda – commenta Luigi Latini, architetto paesaggista, ricercatore allo Iuav di Venezia, coordinatore delle giornate di studio trevigiane - Il rapporto uomo-paesaggio è qualcosa di profondo, è un processo in divenire che porta con sé anche una necessaria e rinnovata consapevolezza. È un processo legato profondamente alla nostra esistenza che deve favorire l’avvicinamento tra le persone e la collaborazione nella cura dei luoghi abitati. La parola ‘coltivazione’ si accompagna con ‘educazione’. Personalmente sento il bisogno di percepire le trasformazioni in atto non come manipolazioni delle forme, ma come adesione tra luoghi di vita e natura, un processo possibile solo attraverso un confronto vivo tra le persone che quei luoghi li abitano”.

La montagna di Núpur con il giardino di Skrudur ai suoi piedi. Sotto: La parte alta del giardino con le coltivazioni di ortaggi e gli alberi di sorbo. Foto: Patrizia Boschiero-Fondazione Benetton Studi Ricerche

Uomo e paesaggio, relazione antica e in evoluzione, fatta di osservazione, ascolto, coraggio e sfide ostinate per l’elevazione sociale. Rintracciabile nell’orto-giardino di Skrudur, a Núpur, in Islanda, a pochi chilometri dal circolo polare artico (Premio internazionale Carlo Scarpa per il giardino, 2013), esempio di una coscienza del paesaggio ispirata all’elevazione sociale e di un legame ostinato tra abitanti e territorio. Dove una scuola, una chiesa e una fattoria diventano elementi caratterizzanti di una comunità che, all’inizio del XX secolo, ha avviato un progetto di coltivazione e cura della terra in condizioni ambientali estreme. Dall’Islanda alla Palestina con le terrazze irrigue del villaggio di Battir, oggi al centro di un intervento di protezione del paesaggio inteso come strumento di difesa di diritti umani. Centinaia di chilometri di muri a secco, antichi di migliaia di anni, permettono il terrazzamento dei versanti, del fondovalle e dei pianori sui crinali e caratterizzano il paesaggio unico di Battir. “Questo territorio, oggi compreso nel Governatorato di Betlemme, faceva parte del distretto di Gerusalemme fino al 1948, quando il neonato Stato di Israele ridisegnò i confini geopolitici dell’area e chiuse lo scalo ferroviario del paese – spiega Giovanni Fontana Antonelli,architetto, urbanista e paesaggista, dal 2012 specialista del programma cultura all’ufficio Unesco di Ramallah, impegnata nel piano di protezione del paesaggio agricolo palestinese - Dal 1967 la zona di Battir è fortemente interessata dal fenomeno della colonizzazione israeliana: nel blocco di Gush Ezion vivono oggi circa 50.000 coloni israeliani a fronte di 22.000 abitanti palestinesi. Dal 2002 l’integrità di questo pregevole paesaggio culturale è minacciata dalle misure unilaterali promosse dal Governo israeliano quali la barriera di separazione e l’incremento delle colonie nei dintorni di Gerusalemme. La barriera di separazione, se costruita, ridurrà drasticamente le capacità di scambio dei prodotti agricoli locali e di circolazione dei suoi abitanti, oltre a causare l’irreversibile devastazione del paesaggio”.

E ancora, i giardini-biblioteca dello slum di Korail, il più grande slum nella megalopoli di Dhaka, in Bangladesh, paese a rischio catastrofi (con emergenze derivanti da alluvioni, cicloni e siccità), tra i più vulnerabili del mondo, dove la sopravvivenza dell’uomo è in uno stato di equilibrio precario. Qui si inserisce l’architettura sostenibile di Khondaker Kabir e l’ideazione di Ashar Macha (Platform of Hope), uno nuovo spazio pubblico, da lui interamente finanziato, per accogliere i bambini del villaggio. Una piattaforma in bamboo, sospesa su Gulshan Lake (di 5,5 per 11 metri), collegata, attraverso un ponte, a un piccolo giardino comunitario affiancato da una biblioteca, un ambiente pulito, sicuro e protetto, realizzato per educare alla natura i piccoli di Korail.

Francesca Boccaletto

Ashar Macha. I giardini-biblioteca dello slum di Korail a Dhaka, Bangladesh, progetto di Khondaker Hasibul Kabir

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