Foto: Manuel Barroso Parejo/Unsplash
Noi e loro. Umani e natura. Una natura da proteggere, gestire, tutelare. Sono, questi, alcuni dei termini più utilizzati per tracciare la cornice dell’attuale crisi ecologica e per rintracciare possibili soluzioni. L’immaginario più diffuso nella società occidentale odierna è percorso da una tensione che considera umano e non umano come due realtà distinte e non comunicanti. Una simile separazione consente di delegittimare, in quanto diversi (s’intende, in questo caso, inferiori), i viventi non umani, e ciò si riflette anche sugli interventi decisionali più innovativi e aperti alla protezione ambientale.
Un rapporto da poco pubblicato dall’Agenzia Europea per l’Ambiente (European Environmental Agency, EEA) prova a tracciare una strada alternativa. Intitolato “Exiting the Anthropocene?” e pubblicato all’interno della serie Narratives for Change, il rapporto analizza la possibilità di “uscire dall’Antropocene” mettendone in discussione alcuni assunti teorici di base. Tra questi vi è una visione molto parziale del rapporto tra l’uomo e la natura, che non riconosce alcuna eguaglianza tra viventi umani e non umani.
Proprio questa visione, infatti, ha contribuito nel tempo a giustificare il massiccio sfruttamento del mondo naturale per scopi umani, innescando la triplice crisi planetaria (cambiamento climatico, perdita di biodiversità, inquinamento) nella quale oggi siamo immersi.
L'intervista completa a Lorenzo Benini. Servizio di Sofia Belardinelli, montaggio di Barbara Paknazar
Lorenzo Benini, esperto di valutazione ambientale di sostenibilità all’Agenzia Europea per l’Ambiente, è fra gli autori di questo documento, ed è convinto che – come si afferma nel rapporto – vi sia l’urgenza di un mutamento teorico e culturale, prima ancora che tecnico o economico.
Sono decenni, in realtà, che si riflette sulla profonda interdipendenza che lega la nostra specie agli altri viventi, ed è dimostrato che non vi sia alcuna linea di demarcazione a separarci dal resto del mondo naturale. Chiare evidenze di questa interconnessione provengono dal mondo scientifico, che ha provato l’infondatezza della convinzione che noi umani siamo indipendenti dalla natura. Al contrario, la nostra dipendenza si esplica ad ogni livello: da quello microscopico (ogni individuo deve la propria sopravvivenza anche alle miriadi di batteri, virus, funghi e altri microrganismi che colonizzano il nostro corpo) a quello macroscopico, perché nemmeno le società umane più tecnologiche potrebbero esistere se venissero meno i servizi ecosistemici che la natura garantisce.
Anche la riflessione filosofica e scientifica si è interrogata sul legame tra umano e non umano, e sono diversi gli autori che hanno proposto e portato avanti visioni alternative. Molti dei documenti citati nel rapporto, che ripercorre la storia di questo lento cambiamento culturale, sono tutt’altro che recenti, e raccontano di come, mentre la Grande Accelerazione si dipanava, si sviluppavano quelle che Benini chiama “nicchie” di riflessione che hanno iniziato a muoversi nella direzione opposta.
«Penso – esordisce il ricercatore – che una delle ragioni per cui, nella nostra società, il modo di intendere il rapporto tra gli esseri umani e la natura non sia ancora cambiato è il fatto che mutamenti così fondamentali nei sistemi di valori occorrono su scale temporali piuttosto lunghe, e non sono processi immediati. Tuttavia, accade che eventi traumatici, come una crisi, mettano in discussione il nostro sistema di sensemaking, cioè la capacità di dare significato e giustificare le nostre azioni. In quel caso, si può agire cercando conferme oppure tentando di trovare nuovi modi di agire e di giustificare le nostre scelte».
Negli ultimi anni, di crisi ne abbiamo attraversate diverse: non solo la pandemia, che pure va riconosciuta come conseguenza di un approccio predatorio al mondo naturale, ma soprattutto la crisi ambientale, che mette a repentaglio non tanto l’esistenza della nostra specie, quanto l’attuale configurazione delle società umane. Queste crisi sono, secondo alcuni, manifestazioni dell’Antropocene.
This week we have published a very interesting briefing about Exiting the anthropocene: https://t.co/88dD63het1 Our #fridayfacts question is: What is the name of the philosophy according to which all living beings have intrinsic value, regardless of their utility to humans?
— EU EnvironmentAgency (@EUEnvironment) March 24, 2023
Oltre ‘noi’ e ‘loro’
Come esplicitano gli autori del rapporto dell’EEA, «Negli ultimi decenni è divenuto sempre più evidente che non esiste alcuna soluzione semplice e rapida alle sfide con cui l’umanità deve confrontarsi nell’Antropocene. Tali sfide sono sistemiche, e hanno a che fare con il modo in cui gli individui, le società e le istituzioni si relazionano con la natura e agiscono nei suoi confronti». Quel che bisogna chiedersi, dunque, è «quale genere di relazione con la natura gli umani dell’Antropocene vogliano nutrire, e come tali relazioni potrebbero cambiare in modo da procedere verso un’epoca di sostenibilità» (p. 6).
Quel che bisogna realizzare, dunque, è un vero e proprio mutamento di paradigma per quanto riguarda la rappresentazione di noi stessi all'interno del mondo naturale. Cambiamento particolarmente arduo per una cultura, come quella europea, che ha fatto di tale separazione un assunto teorico centrale.
Eppure, come sostiene Benini, vi è un ampio margine di miglioramento: «Senza dubbio, una delle cause principali – se non la causa principale – del degrado ecologico di cui siamo i principali autori vi ricercata nella visione utilitaristica della relazione tra esseri umani e natura.
«Spesso la visione del mondo dell’odierna società occidentale viene illustrata come monolitica, eppure anche nel mondo occidentale esiste una sensibilità crescente rispetto a questo tema. Quel che manca, forse, è la capacità di ascoltare una diversità che già esiste, e che può essere rintracciata, ad esempio, nelle comunità locali, o in generale laddove la connessione con la natura si è preservata meglio rispetto ad altre realtà».
L’attenzione a queste culture ‘altre’, infatti, sta crescendo. Ne sono esempio sia gli ultimi rapporti dell’IPBES, sia il Global Biodiversity Framework firmato a Montreal a dicembre 2022: tutti questi documenti fanno esplicitamente riferimento all’importanza delle conoscenze e delle visioni del mondo locali e tradizionali. «I decisori politici dovrebbero volgersi a questi nuclei di conoscenze – prosegue il funzionario dell’EEA –, creando ponti che facciano da antidoto all’egemonia di una visione monolitica come quella utilitaristica, attraverso la quale si continuerebbe ad alimentare i problemi che stiamo vivendo».
Il ruolo della politica
Da alcuni anni l’Unione Europea ha assunto in ambito internazionale un ruolo di leadership per la transizione verso la sostenibilità. Eppure, come il Rapporto sottolinea, sembra che le politiche dell’Unione non riescano veramente a discostarsi dai fondamenti teorici di sfruttamento e dominazione del mondo non umano che hanno reso possibile lo sviluppo del nostro modello di crescita economica. Il Rapporto dell’EEA denuncia che «nonostante vi siano sviluppi incoraggianti, la situazione è ancora seria e preoccupante: ad oggi, l’Europa è tutt’altro che vicina a raggiungere i propri obiettivi di proteggere, conservare, ripristinare e preservare gli ecosistemi naturali, a dispetto della sua legislazione avanzata in quest’ambito».
Eppure, nonostante i limiti evidenti, vi sono elementi che lasciano ben sperare. Uno di questi è il rinnovamento degli strumenti di governance che si sta sperimentando in Europa. Come puntualizza Lorenzo Benini, «nei paesi dell’Unione è sempre più diffusa la partecipazione pubblica nei contesti decisionali. Le assemblee per il clima, ad esempio, si stanno moltiplicando in molti paesi europei, che decidono di dotarsi di questi strumenti partecipativi animati da cittadini, comunità locali, e dai rappresentanti delle diverse parti della società. Aumentano anche gli esempi di bilancio partecipativo», che consiste nel delegare parte delle decisioni sull’allocazione dei bilanci pubblici a un’assemblea composta da cittadini.
«Anche il Joint Research Centre (JRC), il centro di ricerca comune dell’Unione, ha fondato da pochi anni un centro di ricerca per la democrazia partecipativa, nel quale si sta proprio sperimentando come permettere a cittadini e comunità locali di incidere più direttamente sui processi di governance», aggiunge Benini. «Potenziare le forme di democrazia diretta non è una panacea, ma è comunque un passo importante, che potrebbe aiutare ad apprezzare altri modi di relazionarsi con la natura».
Uno degli assunti centrali del rapporto “Exiting the Anthropocene?” è che, per cambiare gli attuali sistemi politici ed economici, si debba abbandonare l’idea che vi sia un ‘noi’ e un ‘loro’, cioè che la natura sia separata dall’umano, prospettiva che ha reso e rende ancora oggi possibile considerarla come oggetto, sfruttarla ed esternalizzarla. Quel che serve è un cambiamento sistemico, a cui tutti i membri della società dovranno contribuire. Si ripropone, dunque, l’approccio indicato da IPCC e IPBES, conosciuto come ‘whole-of-government’ e ‘whole-of-society’, che sottolinea quanto l’impegno di tutti, a tutti i livelli, sia essenziale.
A governi e decisori politici, tuttavia, spetta una parte più ampia di responsabilità. È la politica, infatti, che ha il potere di creare le condizioni perché un cambiamento sistemico si realizzi. Per rispondere a una tale sfida, però, la politica stessa dovrà trasformarsi, come suggeriscono gli autori del Rapporto. «Un approccio dall’alto – si legge nel documento – potrà difficilmente realizzare i necessari cambiamenti di governance senza che si realizzi una trasformazione culturale anche all’interno della sfera politica. […] La governance stessa dovrà non solo mostrarsi saggia, ma diventare veramente partecipativa, simbiotica e tentacolare».
Lorenzo Benini unisce questa immagine di una governance “simbiotica e tentacolare” all’idea di interconnessione: «Che noi umani siamo interdipendenti con il resto del mondo naturale su diverse scale è ormai un fatto acclarato. Il punto, allora, è la volontà di riconoscere a pieno questo dato oggettivo, prendere coscienza del fatto che l’altro è soggetto alle conseguenze delle nostre azioni, e assumersi la responsabilità che da questo deriva».
Perché questa assunzione di responsabilità non sia solo una buona intenzione, bisogna porre in campo strumenti vincolanti: uno strumento legale a cui si può fare ricorso, afferma il ricercatore, consiste nel riconoscere diritti alla natura. «Si tratta di diritti assimilabili ai diritti delle persone fisiche o giuridiche. È uno strumento legale innovativo e ancora imperfetto, che però sta trovando spazio crescente anche in Europa. Ma, soprattutto, è un modo per manifestare l’apprezzamento del fatto che umani e non umani siano su un piano equiparabile. È un cambiamento epocale rispetto ai modi in cui le strutture di governance hanno finora governato il rapporto tra esseri umani e natura, mettendo quest’ultima in secondo piano. D’altra parte, tuttavia, bisogna essere consapevoli che tutti gli strumenti di questo genere continueranno a trovare uno spazio di applicazione limitato finché non saranno messe in discussione alcune convinzioni di fondo, come la priorità ad ogni costo della crescita economica», e finché non si ridiscuterà la visione condivisa del nostro posto nel mondo e del futuro a cui aspirare.