SOCIETÀ

Vendo altrove. La ripresa che già c'è

Oscar Farinetti, fondatore di Eataly, in un’intervista a Lettera43 dice senza giri di parole che gli italiani devono smettere di lamentarsi – sta diventando un grande alibi nazionale, avverte – e pensare con fantasia e creatività a soluzioni praticabili: l’Italia è un paese ricco di intelligenze e capacità. Potremmo facilmente liquidare queste parole come avventate o per lo meno irrealistiche, vista la situazione generale del paese. Tuttavia, leggendo il nuovo rapporto Istat per la parte che riguarda le imprese ci accorgiamo che queste parole non sono totalmente campate in aria. Il quadro dipinto dall’istituto di ricerca nazionale non è tutto negativo, anzi. Segnala, per certi versi con un po’ di sorpresa, la capacità di rilancio di una quota non marginale delle nostre imprese (12%) che pur in una situazione oggettivamente complicata sta mantenendo la propria posizione competitiva se non addirittura migliorandola. La chiave di lettura principale attraverso la quale interpretare questa ritrovata dinamicità economica è l’export. Come ricordava in una sua recente relazione l’ex-direttore dell’Istat Enrico Giovannini è proprio l’export una delle poche voci del Pil che stanno crescendo, e che stanno in parte compensando a livello di contabilità nazionale il calo dei consumi interni.

Le nostre imprese più attente hanno affrontato la crisi del mercato interno rafforzando la penetrazione nei mercati a livello internazionale ben oltre le tradizionali rotte commerciali europee. È questo un dato particolarmente significativo. Infatti, complici anche le difficoltà dell’Europa, molte imprese italiane hanno deciso di esplorare mercati più distanti sia geograficamente che culturalmente. Per quanto possa apparire come una conseguenza logica, esportare nei paesi extra europei non è un risultato facilmente raggiungibile, vista la nostra struttura industriale basata su piccole e medie imprese che hanno a disposizione risorse economiche e professionali limitate. Portare i propri prodotti su questi mercati richiede investimenti specifici, sia sulla rete distributiva locale sia sulla riconoscibilità del prodotto e della marca presso il consumatore finale. Oltre alla volontà, ci vogliono competenze adeguate e soprattutto tempo: risultati come questi sono frutto di investimenti cumulativi non di un exploit di pochi mesi.

È incoraggiante che questo processo si sia avviato, segno che le nostre imprese più dinamiche stanno reagendo con lucidità alle sfide poste dalla crisi economica e che hanno capito come accrescere la propria competitività. L’Istat mette in evidenza come le imprese che hanno aumentato la propria presenza nei mercati extra-europei sono più produttive (aumento dell’8% del valore aggiunto) e creano lavoro (+7% in termini di occupazione). Comprensibile che le protagoniste di questo processo siano principalmente quelle mediamente più grandi che hanno maggiori risorse a loro disposizione, anche se non mancano imprese che pur essendo più piccole dimostrano vivacità sui mercati internazionali. Da un punto di vista settoriale è la nostra manifattura, rispetto a commercio, costruzioni e servizi, la protagonista del riposizionamento a livello internazionale, sebbene al suo interno ci siano segmenti in crescita (meccanica) e altri invece più in difficoltà (mobile, tessile).

Se questa è la direzione di marcia che le imprese più innovative hanno segnato, la questione principale diventa allora come accrescere il riposizionamento internazionale delle imprese che invece sono ancora oggi fortemente concentrate sul mercato nazionale. Su questo credo sia urgente aprire il dibattito.

Marco Bettiol

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