CULTURA

Il demone artistico della modernità

Qualcosa si è consumato. Non l’antico, ma il vecchio e logoro. È un passato da gettare che spinge ad un procedere inesorabile sull’orlo di un burrone, in direzione di un ignoto oscuro ma tagliato da lamine di luce quasi dolorosa e da bagliori intensi; speranza nel progresso, promesse di miglioramento e cambiamento. Sono i primi anni del secolo breve, si scorge la nascita di un mondo nuovo, di una modernità ineludibile e necessaria. Un concetto sviluppato dalla mostra “Il demone della modernità. Pittori visionari all’alba del secolo breve”, da poco inaugurata a Rovigo, secondo una lettura personalissima del suo curatore, Giandomenico Romanelli, che raggruppa opere inusuali, senza giocare sul richiamo degli artisti noti al grande pubblico, ma costruendo un racconto suggestivo, per quanto parziale, del “demone” artistico, dell’urgenza creativa che nasce dalle prospettive di un futuro ricco di possibilità, come di oscurità. Una mostra cupa e affascinante, abitata da sogni, incubi, visioni, paesaggi illuminati, scenari infernali, perdizioni e metamorfosi.

M. Konstantinas Čiurlionis, Angelo (Preludio dell’angelo), 1909, e Fantasia (Demonio), 1909

Prende il via dal simbolismo tedesco un percorso che attraversa inquietudini umane e pittoriche per giungere a luoghi nuovi, lontani dal vedutismo e dalla pittura en plein air, ma che riflettono paesaggi dell’anima, della coscienza. Angeli traghettatori guidano attraverso epoche e sentimenti;  bianchi e rosa, dalle ali enormi, sentinelle in paesaggi evanescenti o guardiani  di architetture futuriste come di antiche torri di babele, escono dalle cornici sottili in cui le ha chiuse la pittura del lituano Čiurlionis. Il Lucifero di von Stuck, occhi felini luminosi nella tenebra, sta seduto dubitoso, tutt’altro che demone imperioso; con un bacio la Sfinge trascina nella perdizione un uomo nudo e in ginocchio, inerme, le braccia tese nel nero. Nel ritratto di famiglia di Vlaho Bukovac, l’artista ritrae se stesso come testa mozzata appoggiata su un vassoio, vicino a quella della moglie; e sopra i macabri resti pendono, appese a corde sottili legate ai capelli, le teste tagliate dei quattro figlioletti biondi, in un interno borghese, a colori chiari, in un terrificante senso di domesticità. Luce quieta e allo stesso tempo inquisitoria, che si trasforma in aura purificatrice, annuncio di naturale divino, nei paesaggi lunari di Diefenbach, abissi luminosi, con luci radenti su rocce e penetranti l’acqua cristallina dell’isola di Capri. “È l’alba di un mondo arcano e maledetto”, racconta Romanelli, “e, insieme, l’affacciarsi di una speranza luminosa nella materia e nello spirito”. 

Karl Wilhelm Diefenbach, Visione, 1895; Mirko Racki, La città di Dite, 1906

Non c’è salvazione, invece, nelle pitture rosse di sangue di Mirko Rački, nel fiume disperato in cui immerge corpi umani lacerati e infilza bastoni e crani, scenari apocalittici su cui viaggiano anime perdute e inquiete alla ricerca di luoghi diversi, fagocitate forse da destini atroci. Così il giovane nudo dipinto da Schneider, catene ai polsi, abbassa la testa rassegnato; è il 1920 e la guerra ha flagellato l’Europa: il mostro dagli occhi rossi, all’orizzonte, è un destino di sfacelo. Un essere mostruoso che già si affacciava quindici anni prima nelle divertenti metamorfosi di Leo Putz, come oscuro presagio, e che diventa poi condanna, La fine del mondo, nel 1918, per Ignjat Job, e Danza macabra per Alberto Martini.

Leo Putz, La lumachina maliziosa, 1904; Sascha Schneider, La sensazione di dipendenza, 1920

Dopo la tragedia universale della grande guerra, l’espressionismo diventa protagonista, ed emerge con urgenza un bisogno di realismo, di “spontaneità immediata e quasi selvaggia di sensazioni, percezioni e linguaggi, con l’affermazione di un’estetica semplificata ed esasperata”. Dal secondo ventennio del Novecento è il cinema a farsi interprete d’eccezione di questa nuova modernità. Lo è soprattutto nelle pellicole espressioniste tedesche ed austriache, nelle quali la città assume un ruolo di primissimo piano, facendo dimenticare la Parigi dei boulevard, e trasformandosi nella Metropolis di Fritz Lang. Diventa la New York di Gennaro Favai, città blu e gialla in cui le finestre dei grattacieli proiettano luci come da riflettori, luogo quasi cinematografico, macchina che vive, cresce, respira, e ai cui piedi  le persone lavorano formicolanti nelle imbarcazioni, nelle fabbriche, per le strade, schiavi e nutrimento di quella macchina, duplice e disumana.

Chiara Mezzalira

Fritz Lang , una scena dal film “Metropolis”, 1927; Gennaro Favai, “New York”, 1930 ca, olio su tavola – collezione privata

 

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