SOCIETÀ

Flick: la corruzione non si sconfigge senza la buona politica

Sessantunesimi su 167. Se la classifica mondiale della corruzione fosse quella di un campionato sportivo, l’Italia sarebbe una squadretta alla pari con il Senegal, e dietro Ghana e Cuba. Ma se la recentissima graduatoria di Transparency International può non convincere tutti, è più difficile liquidare il giudizio tombale di uno come Giovanni Maria Flick: “Una volta si rubava per fare politica. Oggi si fa politica per rubare”. Flick, relatore a una conferenza all’università di Padova, è uomo di legge per eccellenza, avendo potuto scandagliare il mondo della giustizia attraverso ogni percorso: ordinario di diritto penale, giudice, pubblico ministero, avvocato, ministro della Giustizia, membro e poi presidente della Corte Costituzionale. E anche se oggi si definisce con un po’ di civetteria un “rottamato”, è una delle voci più autorevoli per parlare dello stato della corruzione nel Paese, riflesso inevitabile dello stato della giustizia. Una situazione, secondo Flick, più drammatica che sconfortante: “A oltre vent’anni da Tangentopoli, possiamo concludere che ogni tentativo di riformare il sistema è fallito. Oggi la corruzione è quotidiana e pervasiva. E lo scetticismo verso il potere giudiziario è diffuso”. Ne è prova il basso numero di procedimenti penali per corruzione: “Per molto tempo si è sperato” spiega il giurista “che fosse possibile debellare il malaffare delegando ai magistrati ogni responsabilità. Un’ottica illusoria: la logica repressiva può ben poco, senza una vera cultura della prevenzione”. E la globalizzazione economica – aggiunge – non ha aiutato, moltiplicando gli episodi di corruzione internazionale.

Nella narrazione di Flick, il 1992 rappresenta uno snodo cruciale: da un lato l’arresto di Mario Chiesa segna l’inizio della stagione in cui la politica sembra cedere il passo agli inquirenti, dall’altro lo Stato reagisce per la prima volta con fermezza alle stragi mafiose. Ma se, nella storia recente della lotta alla corruzione, il contrasto alle mafie segna molti successi, non altrettanto si può dire in tema di criminalità finanziaria. Le cause, secondo Flick, sono molte: scelte legislative colpevoli (come la sostanziale depenalizzazione del falso in bilancio, in vigore fino all’anno scorso); una prassi che predilige la proliferazione continua di leggi nuove e dal linguaggio oscuro, lasciando spazio a interpretazioni ambigue che favoriscono condotte illecite; più in generale, l’assenza di quella che Flick definisce la “cultura della reputazione” o “della vergogna”, per cui il controllo sociale dei comportamenti pubblici viene offuscato da un concetto distorto di presunzione di innocenza, e l’assenza di una condanna definitiva diventa un’inattaccabile prova di onorabilità: “Manca la capacità di indignarsi”. Infine, l’affermarsi del principio di urgenza, o di emergenza, che porta a gestire anche situazioni ordinarie e prevedibili con modalità eccezionali. Un’assenza di tutele per la trasparenza dell’azione amministrativa cui solo di recente, con la legge 190 del 2012, si è tentato di porre un primo rimedio. Il giurista è invece perplesso sulla tendenza alla depenalizzazione per un largo numero di reati minori: il timore è che, in nome di una apparente maggiore efficienza del sistema, si finisca per ridurre le garanzie per chi è accusato di illeciti.

Dove le considerazioni del Flick professore si intrecciano a quelle di ordine morale, è interessante saggiare il pensiero del giurista cattolico sul rapporto tra confessioni religiose e cultura della legalità: “È innegabile che l’etica calvinista – osserva – abbia un peso rilevante sui comportamenti pubblici e sul senso civico nell’Europa del Nord. Ma è un primato da non assolutizzare, come dimostrano alcuni loro atteggiamenti verso i profughi: in Italia, per fortuna, non si parla né di erigere barriere né di requisire i beni dei rifugiati. D’altra parte, il cattolicesimo a volte sembra ossequiare il rispetto formale delle norme, concetto che c’entra poco, ad esempio, con quello di onestà fiscale”.

Sul ruolo della magistratura, il giudizio di Flick è articolato: è vero che i giudici riempiono i vuoti della politica sia nella repressione che, sempre più, sul piano preventivo (l’autorità anticorruzione è diretta da un magistrato); ma questo ruolo di supplenza, che tende ad allargarsi a campi di valenza sempre più generale (è il caso della bioetica) favorisce indirettamente conflitti di interessi e comportamenti discutibili: “Oggi si pensa che per risolvere una qualsiasi controversia di carattere privato o prevenire illeciti nelle imprese basti dare un incarico a un magistrato. La funzione di controllo sociale, propria dell’opinione pubblica, viene così affidata alle toghe”.  D’altra parte, l’ex presidente della Consulta prende atto di una tendenza per lui inevitabile: l’affermarsi delle istituzioni sovranazionali comporta la progressiva estensione della common law, per cui il sistema giuridico, anche nei Paesi con una tradizione diversa come il nostro, tende a far prevalere l’interpretazione del giudice sul ruolo del legislatore. Uno spostamento, quindi, verso i princìpi degli ordinamenti anglosassoni che Flick ritiene inevitabile: a un mercato comune servono leggi comuni, dunque i poli decisionali, anche in materia giudiziaria, sono sempre più decentrati. Né è meno influente, nel generale appannarsi del potere legislativo, la tendenza del Parlamento a ricorrere sempre più spesso alla delega al governo. Un’eclissi della politica che, osservata da un giurista divenuto ministro, non può che allarmare chi crede in una democrazia davvero liberale.

Martino Periti

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