SOCIETÀ
La fortezza Europa e i migranti
Filo spinato di fronte alla bandiera dell'Unione europea issata davanti a un centro per la prima accoglienza di profughi e immigrati. Foto: Reuters/Laszlo Balogh
Mentre gli occhi di tutti sono sulla Grecia, sembrano abbassarsi per un momento le luci intorno ai migranti, che tuttavia continuano ad arrivare sulle nostre coste. I numeri però sono chiari: secondo l’Onu nei primi 6 mesi del 2015 hanno attraversato il Mediterraneo verso l’Europa circa 137.000 persone, con un aumento dell’83% rispetto all’anno precedente, la maggior parte in fuga dalla guerra e dalla fame.
Nonostante le richieste dei paesi mediterranei, già particolarmente provati dalla crisi, sulla questione l’Europa stenta a trovare unità e solidarietà. Una situazione che non meraviglia Simone Paoli, storico, docente di European Union presso l’International Studies Institute (ISI) di Firenze ed esperto di politiche dell’immigrazione: “L’attuale sistema europeo per la gestione dei rifugiati e il contrasto dell’immigrazione illegale sembra fatto per far ricadere i costi, economici e politici, sui paesi periferici”. Questi infatti si trovano di fatto a gestire le frontiere di tutta l’Europa, senza che gli stati più ricchi, verso i quali è diretta la maggior parte dei migranti, accettino per ora di ripartirne i costi.
La chiave di volta del sistema è costituito dall’accordo di Schengen, firmato esattamente 30 anni fa, e dalla Convenzione di Dublino sul diritto di asilo, entrata in vigore nel 1990 e sostituita nel 2003 dal cosiddetto regolamento Dublino II. “Schengen all’inizio riguardavano solamente Francia, Germania e i paesi del Benelux, e non è stato negoziato da nessuno degli stati che oggi formano la frontiera europea – spiega Paoli –. Per quanto invece riguarda la convenzione di Dublino, fu soprattutto la Germania a insistere perché il responsabile della richiesta di asilo fosse individuato nel primo paese di arrivo, soprattutto per evitare il fenomeno del cosiddetto asylum shopping”.
Quelli di Schengen e di Dublino furono due appuntamenti fondamentali, ai quali però il nostro Paese si presentò sostanzialmente impreparato, in parte per il suo recente passato di terra di emigrazione. Anche se negli anni ‘80, soprattutto durante il governo Craxi, ci fu un tentativo di dare risposte che andassero al di là della costruzione della ‘fortezza Europa’: “Il governo italiano propose un sistema di flussi legali di immigrazione per i paesi del Nordafrica, assieme a una sorta di ‘Piano Marshall’ per il Mediterraneo. Poi però, con la legge Martelli e soprattutto la Turco-Napolitano, la politica italiana si appiattì progressivamente sulle richieste dell’Europa. Anche perché, dopo Mani Pulite, proprio Bruxelles divenne l’unica fonte di legittimazione politica per un intero gruppo dirigente”. A metà degli anni ’90 vengono insomma prese alcune scelte fondamentali, su cui l’Italia ha però pochissima voce in capitolo: “La stessa legge Turco-Napolitano venne presentata al cancelliere Helmut Kohl prima di essere discussa dal Parlamento. La Germania era infatti interessata a che l’Italia si dotasse di un’efficace sistema di contrasto dell’immigrazione irregolare, che avrebbe portato alla creazione dei Cpt (centri di permanenza temporanea) e dei Cie (centri di identificazione ed espulsione)”.
Oggi intanto la questione dell’immigrazione tiene banco anche negli altri paesi, come dimostra la polemica intorno al nuovo muro annunziato dall’Ungheria a protezione delle sue frontiere. Muri del resto ci sono già in Grecia al confine con la Turchia, a Ceuta e a Melilla, vere e proprie enclavi fortificate in Africa. “Qui sta la grande contraddizione dell’Europa nei confronti dell’immigrazione – continua Paoli –. Da una parte si pone un grande accento sulla sicurezza; dall’altra ogni volta che un paese frontaliero prova a muoversi concretamente viene criticato, come ad esempio è successo all’Italia per gli accordi con la Libia di Gheddafi”. Il problema non è solo che i muri vengono prima o poi scavalcati, ma anche quello dei costi politici: “Il controllo dell’immigrazione è enormemente più facile in paesi dittatoriali come quelli del Golfo Persico, che espellono in massa centinaia di migliaia di lavoratori stranieri quando non ‘servono’ più, peraltro senza grossi contraccolpi internazionali. Il dilemma in cui si dibatte l’Unione Europea è un altro: garantire la sicurezza senza intaccare i valori di libertà che stanno al suo fondamento, che tra le altre cose ci hanno garantito decenni di democrazia e di crescita economica”.
È possibile pensare in futuro a un’abolizione completa delle frontiere, come è stato proposto da un gruppo di intellettuali e ricercatori francesi? “Un giorno forse, prima però dobbiamo ripensare le nostre strutture politiche, sociali, mentali. Bisognerebbe ad esempio progettare un welfare internazionale. L’unica cosa sicura nell’immediato sarebbe la distruzione del tessuto sociale e politico delle nostre società attuali”. Perché non bisogna, secondo Paoli, sottovalutare l’impatto dei processi migratori: “L’immigrazione è un mito fondativo per gli Usa ma non per gli stati europei, almeno in origine. E non è un caso che storicamente essa sia approvata non solo dalla sinistra, laburista o cristiana, ma anche dalla destra liberista. La composizione multietnica della società Usa ad esempio è indicata da alcuni come una delle ragioni della maggiore debolezza dei sindacati oltreoceano, come ad esempio descrive bene il libro There is Power in a Union di Philip Dray”.
Per andare al di là degli slogan, sia contro che pro, bisogna insomma anzitutto riconoscere che l’immigrazione non è un processo neutro, senza vincitori né vinti: “A pagarne il prezzo immediato è quasi sempre la manodopera locale non qualificata, che soffre della concorrenza nell’accesso al welfare e del dumping salariale e dei diritti. Per questo le prime affermazioni del Front National furono soprattutto alle spese del Partito Comunista Francese”. Hanno quindi ragione i populisti, che vogliono lo stop dei flussi? “No perché individuano il problema, non la soluzione. Una risposta puramente militare, fatta soffiando sul fuoco dei sentimenti razzisti e xenofobi, oltre che sbagliata è impossibile”.
Daniele Mont D’Arpizio