UNIVERSITÀ E SCUOLA

Guardiamo all’istruzione come un investimento (con i numeri giusti)

Modesta proposta di fine agosto ai direttori dei quotidiani: per favore, continuate gli interessantissimi dibattiti sul pancione di Elisabetta Canalis, sugli amori di Gigi Buffon, sui meriti delle infradito in confronto ai sandali col tacco ma, per favore, non occupatevi di università. Lasciate perdere, ignorateci, scrivete della pasta con le sarde, del gazpacho, dei filetti di bisonte, delle ostriche che nei mesi estivi non si possono mangiare: insomma, fate quello che volete ma non parlate di lauree e mercato del lavoro. 

La ragione è semplice: per ragioni misteriose i dati più semplici (numero annuo dei laureati, stipendi medi a cinque anni dalla laurea) diventano sulle colonne dei giornali italiani arcane cifre che dicono l’opposto di quello che dovrebbero dire, manco ci volesse l’oracolo di Delfi per interpretare una percentuale. L’ultima tempesta in un bicchier d’acqua è quella creata da Stefano Feltri con un articolo dove si pone la fatale domanda: “È giusto studiare quello per cui si è portati e che si ama? Soltanto se si è ricchi e non si ha bisogno di lavorare, dicono gli economisti”. Amate Leopardi, vi piace Aristotele, o forse Caravaggio vi appassiona? Lasciate perdere, se ne occuperanno i rampolli di Marchionne. La conclusione è lapidaria: “Purtroppo migliaia e migliaia di ragazzi in autunno si iscriveranno a Lettere, Scienze politiche, Filosofia, Storia dell’arte.” 

Cerchiamo di seguire il ragionamento di Feltri: “Se guardiamo all’istruzione come un investimento, le indagini sugli studenti dimostrano che quelli più avversi al rischio, magari perché hanno voti bassi e non si sentono competitivi, scelgono le facoltà che danno meno prospettive di lavoro, cioè quelle umanistiche”. A sostegno di questa affermazione, il giornalista cita un paper del centro studi CEPS, dove viene calcolato il “valore attualizzato” delle lauree in discipline diverse, tenendo conto anche del cosiddetto costo-opportunità, cioè gli stipendi a cui si rinuncia per studiare invece di lavorare. E qui cominciano le stranezze, per esempio il fatto che Scienze politiche non viene inclusa dai ricercatori tra i corsi di studio umanistici ma (giustamente) tra quelle di scienze sociali, al contrario di quel che dice Feltri.

Poi, è proprio vero che scelgono le facoltà umanistiche i ragazzi che hanno voti bassi? L’articolo cita vaghe “indagini sugli studenti” ma, come ha rilevato Galatea Vaglio su valigiablu “non è chiaro da dove Feltri peschi questo ultimo dato (cioè che alle facoltà umanistiche si iscrivono ragazzi con voti bassi) cosa mai affermata nel paper originale, che non prende in considerazione il rendimento precedente degli studenti”. In ogni caso non si capisce perché un diciannovenne che ha faticato a superare la maturità ottenendo voti mediocri dovrebbe tentare di iscriversi a ingegneria o medicina, dove fra l’altro i test d’ingresso lo respingerebbero senza scampo.

Ma veniamo alla sostanza della ricerca: l’obiettivo del CEPS è calcolare “what an individual gets out of education (from a financial point of view)” cioè quello che si ottiene studiando invece che entrando immediatamente nel mondo del lavoro. Secondo i tre ricercatori, fatto 100 il valore medio attualizzato di una laurea a cinque anni dalla fine degli studi, chi è laureato in legge o economia ottiene 273 (addirittura 398 se laureato in medicina) ma soltanto 55 se studia fisica o informatica. Se ha studiato lettere o storia, il valore è negativo, -265, cioè ha speso molto di più di quanto può contare di guadagnare nel lavoro che lo aspetta.

In realtà, già sapevamo da Almalaurea che gli stipendi per i laureati del gruppo di discipline letterarie sono bassi (1.021 euro) mentre per quelli del gruppo medico sono più soddisfacenti (1.643) euro, ma forse la busta paga a fine mese non dovrebbe essere l’unica considerazione nella scelta degli studi. Chi sviene alla vista del sangue dovrebbe comunque tentare di fare il medico? Chi ha difficoltà con le tabelline dovrebbe intestardirsi a fare l’ingegnere? E chi ha la passione e la pazienza per insegnare ai bambini dovrebbe comunque andare a lavorare in banca? Magari l’ostinazione degli economisti a misurare il prezzo di ogni cosa, dal cielo stellato al bacio dell’amata dovrebbe essere presa con un po’ più di scetticismo. 

Tuttavia lo studio del CEPS si presenta avvolto da un’aura di scientificità e uno degli autori, Ilaria Maselli, nei giorni scorsi ha avuto i suoi 15 minuti di celebrità, intervistata dal Sole 24 ore, quindi vediamo più da vicino se la metodologia è accettabile e le conclusioni credibili. Partiamo dai dati: gli autori dicono di aver usato un’indagine sui laureati dell’anno 2000, quindi utilizzano dati dei percorsi di laurea precedenti alla riforma 3+2, il che distorce le valutazioni perché il paper tiene conto della durata degli studi. Poi calcolano i redditi per corso di studi basandosi su interviste avvenute nel 2008, prima della crisi e del catastrofico aumento della disoccupazione giovanile, che allora era il 21% e oggi è il 42%. Basterebbe questo per giudicare obsoleti i dati su cui si basa lo studio e irrilevanti le sue conclusioni. 

Se poi volessimo davvero discutere di metodologia potremmo osservare che la tecnica del Present Discounted Value (PDV) usata nel paper del CEPS soffre di molti limiti ben conosciuti dagli economisti, in particolare l’autoselezione degli studenti nei diversi ambiti di studio e nei lavori scelti successivamente, il che rende difficile confrontare i risultati tra corsi di studio diversi. 

In realtà, non occorre neppure addentrarsi nei meandri dell’econometria perché ci pensano gli stessi autori a fornire un’interpretazione autentica del loro pensiero: in un intervento sul “Fatto Quotidiano” del 19 agosto la Maselli afferma che “in un mercato del lavoro in cui sempre più persone accedono all’istruzione universitaria, la domanda ‘cosa studiare’ diventa importante almeno tanto quanto la decisione se continuare dopo la scuola”. Peccato che gli immatricolati annuali nelle università italiane, che avevano raggiunto un massimo di 330.802 nel 2002, siano precipitosamente calati dopo il 2008, fino a raggiungere i 252.457 circa nel 2013, quasi un quarto in meno, quindi siamo di fronte a una fase in cui in cui sempre meno persone accedono all’istruzione universitaria e non viceversa. 

Nel dubbio su cosa studiare, conclude l’autrice, “ingegnatevi con i vostri amici per organizzare aperitivi culturali” (sul Sole-24 ore aveva proposto invece di “tenere la contabilità della squadra di basket”). Ah, adesso abbiamo capito: cari studenti, invece di perdere tempo in aula, andate a bere uno spritz in piazza parlando di come “coltivare perseveranza e motivazioni sociali” (altro consiglio della Maselli). Soprattutto a Bruxelles, naturalmente.

Fabrizio Tonello

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